giovedì 31 agosto 2017

Statico o dinamico? Psicologia spicciola del modellista

Ricordo che anni fa stavo andando in macchina verso Roma, con un paio di amici. D'un tratto, lungo una strada statale alle porte della capitale, vidi uno sfasciacarrozze con il suo consueto cumulo di autovetture accatastate una sull'altra. Ma subito notai, proprio vicino alla rete che confinava con la strada, la carcassa (ancora in uno stato accettabile) di un vecchio Fiat G91 dell’Aeronautica militare italiana. Fu un colpo. Questo è infatti il tipo di aereo che più mi piace, retaggio certamente di quell'emozione che provavo a vederli sfrecciare in cielo negli anni ’70.
"Mio Dio!", esclamai. "Se avessi spazio e soldi mi fermerei e lo comprerei subito". Sì, l’avrei comprato e messo in giardino, ignorando le reazioni di stupore e scetticismo che sicuramente avrei suscitato nei vicini. Anzi, per assurdo l'avrei caricato sul tetto della macchina (peraltro non mia) e lo avrei trasportato fino in Lombardia.
Ovviamente non feci nulla di tutto questo. Però questo episodio mi dà lo spunto per affrontare un aspetto significativo del modellismo: il desiderio e il piacere di possedere un pezzo di realtà che ci emoziona.

Fateci caso. Prendiamo ad esempio il modellista statico, cioè colui che costruisce - o assembla partendo da un kit preconfezionato - un aereo (ovviamente lo stesso discorso vale per navi, elicotteri, camion, macchine, trattori ecc.): lui non costruisce un aereo, ma quel tipo particolare di velivolo che più gli piace. Ovvero un Fiat G91, un Cessna 182, uno Spitfire ecc. La sua attività è dunque concentrata nel riprodurre in scala un qualcosa di vero, di reale. In altre parole, attraverso il modellino lui riesce a possedere un pezzo di realtà, adatto ovviamente ad essere ospitato in casa e maneggiato, date le dimensioni più o meno ridotte.
Un discorso simile vale anche per il modellista dinamico, cioè colui che i modelli li fa volare, navigare, camminare. Le industrie costruttrici lo sanno bene, ed infatti propongono una miriade di riproduzioni di aerei realmente esistiti o attuali. E tanto più il loro grado di realismo è rigoroso (vale a dire curato nei dettagli), tanto più il modello verrà apprezzato.
Ho ad esempio assistito al campo ad una discussione su un modello di McDonnell Douglas F/A-18 Hornet vecchio di dieci anni, un po’ rabberciato ma comunque bello da vedere, che verteva sul profilo dei piani di coda. "No, nella realtà non sono smussati", diceva un collega, salvo poi andare a verificare sull'enciclopedia degli aerei - presente inesorabilmente in macchina - se questa osservazione fosse da considerarsi vera o meno.

Questa forma di presa di possesso della realtà ha radici primordiali. Scrive a questo proposito Gianluca Veggia nel suo sito Internet www.ilmiositoweb.com/modellismo: "Per ingraziarsi le divinità, tutti i popoli antichi, dai Greci ai Romani deponevano nei templi statuine di bronzo o di terracotta con funzione essenzialmente votiva e comunque legata a culti religiosi. Si trattava spesso di figure di animali, di guerrieri, ma anche di divinità e a volte raffiguravano carri, oppure utensili casalinghi". E ancora: "Dal Medio Evo fino a pochi anni fa, semplici modellini di velieri, venivano posti come ex voto nelle chiese, per ringraziare la Madonna o qualche Santo dello scampato naufragio di qualche nave. Ma oltre che per motivi religiosi o ludici, il modellismo si sviluppò sia nei cantieri navali che presso artigiani mobilieri per creare piccoli modelli delle opere da costruire, da mostrare ai committenti. Sembra addirittura che anche il grande Leonardo da Vinci, ricorresse al modellismo per mostrare ai committenti i plastici delle sue opere".
In questo caso il possesso della realtà presenta sfaccettature diverse. Lasciando da parte Leonardo e la sua creazione di modellini in scala – cosa che si fa ancora oggi e che ha motivazioni anche pratiche per il successivo realizzo del manufatto in scala reale – si può notare come la riproduzione della realtà in scala abbia una funzione perlopiù evocativa. Io lascio il mio modellino di nave davanti alla statua della divinità e con esso chiedo la grazie di un viaggio sereno. O anche: depongo la riproduzione di una mano in miniatura davanti al riquadro del santo per ringraziarlo di non averla persa in occasione di un grave incidente. E così via.

Dubito che qualsiasi modellista, prima di un volo, deponga l’aeroplanino giocattolo del figlio nella chiesa più vicina per ingraziarsi un buon volo. Eppure le dinamiche psicologiche sono simili sia per il modellista che per chi depone un ex voto: io non posso deporre una imbarcazione vera in chiesa, e allora ne produco un facsimile in scala e lo offro alla divinità; così come io non posso pilotare un vero F/A-18 Hornet e allora ne compro o ne costruisco uno in scala e lo faccio decollare. O anche lo tengo solo in casa e lo ammiro ogni volta che voglio. In entrambi i casi io decido di adattare la realtà alle mie esigenze.

C’è tuttavia ancora un aspetto che merita attenzione e che si traduce in una domanda: a livello psicologico, c’è differenza tra un modellista statico e uno dinamico?

Prima di suggerire un risposta a questo interrogativo, devo necessariamente rimarcare delle eccezioni. La prima è che non è affatto detto che le due figure non possano coincidere. Cioè ci può essere ad esempio l’aeromodellista che fa volare il suo modello ma che magari costruisce anche velieri da tenere in casa. La seconda è che non è affatto detto che un modellista statico non abbia interesse a quello dinamico; semplicemente può essere che non abbia avuto la possibilità di avvicinarsi a questo hobby. Diventa allora azzardato tracciare dei profili netti validi per tutti e pertanto quella che segue resta unicamente un’ipotesi.

Diciamo che lo statico(*) è prevalentemente un esteta. Il dinamico un pratico. Il primo, infatti, una volta raggiunta una certa abilità costruttiva, non tollererà che il suo modello non risulti pressoché perfetto in termini di aderenza alla realtà. La livrea(**) dovrà essere quella, così come l’eventuale armamento o la presenza di specifiche vele, ruote ecc. Perché molto semplicemente quello che ha in mano dev'essere ad esempio un Fiat G91 e non qualcosa che ci assomiglia. Diversamente tutto il discorso del possesso della realtà decade.
Il dinamico, invece, è un pratico, nel senso che può essere molto più tollerante. Ad esempio accetta di buon grado di far volare modelli rabberciati con colla e nastro adesivo, perché l’importante è che torni a volare in sicurezza dopo un crash. Poi può accettare serenamente di avere un modello che magari risulta simile a tanti velivoli esistenti, ma non per questo ne rappresenta una riproduzione fedele. Il mio stesso Darko è simile ad un aereo acrobatico, ma non per questo saprei indicare di chi è la riproduzione.
Lo statico (non me ne vogliano i tanti appassionati) assomiglia dunque a chi osserva il mondo dalla finestra, un po’ come chi viaggia unicamente guardando i documentari in televisione, mentre il dinamico e colui che in "strada" ci va, e se deve viaggiare carica in macchina la sua valigia e via.
E ancora: per usare un paragone ardito, lo statico è lo studioso accademico, che fa ricerche, si documenta, esplora ogni possibile caratteristica del modello che realizza quasi per scongiurare ogni possibile infiltrazione del falso storico nel suo pezzetto di realtà; il dinamico invece è il professore delle scuole medie che, pur godendo di una preparazione magari vastissima, deve comunque fare i conti con ragazzi svogliati, errori di grammatica e finanche chewingum appiccicati sotto ai banchi.


(*) Per comodità da ora in poi, salvo diversa specifica, userò "statico" per indicare il modellista statico e "dinamico" quello che invece fa muovere i suoi modelli

(**) Insieme di colori, disegni, scritte che contraddistinguono aerei, navi, veicoli di diverse organizzazioni militari o civili.

martedì 29 agosto 2017

Tu chiamale se vuoi... soddisfazioni

Estate 2017. È il primo pomeriggio di un giorno infrasettimanale. Ormai so che anche durante la settimana al campo c’è qualcuno. In giorni ormai canonici: perlopiù pensionati o professionisti che decidono di prendersi il pomeriggio libero. Io sono tra questi.
Le batterie pullulano di energia già dalla sera precedente. I sedili della macchina sono già ribaltati. Darko è già imbragato come una fiera dentro lo scatolone adattato ad hoc per fungere da contenitore per un trasporto sicuro. Lo stesso scatolone che un giorno, prima che venisse pietosamente dipinto d’un bel blu cielo, suscitò la curiosità di un amico del campo, che candidamente mi chiese: "Scusa Stefano, ma che cosa sono le Nastrecce?". Era il nome di una marca di merendine. Sì, lo so. Avrebbe fatto più figo se avessi trovato imballaggi della Great Planes, della Hype, della Sebart (tutte marche produttrici di aeromodelli, nda) ma tant’è. Quella Nastreccia faceva il caso mio. A costo zero.

Il caldo toglie il fiato. Ma non importa. Così percorro le poche centinaia di metri di strada sterrata che portano al campo, sollevando nuvole di polvere mentre levita con l’afa anche quel misto di tensione, voglia di volare e di fare bene che mi accompagna ormai dal primo giorno. 
Parcheggio. Il campo è deserto. Solo qualche piccione sudato s’attarda a cercare sparuti vermi secchi tra l’erba color paglia. Io non mi preoccupo. So già che molti arrivano non alle 14.00, come capita a me, ma saggiamente più tardi. Quando emerge almeno l’illusione che il caldo possa mollare. Così apro il gabbiotto e tiro fuori la manica a vento.

Che soddisfazione! Il regolamento del campo prevede che tu possa avere la chiave di questo scrigno - perso nel deserto della boscaglia brianzola - solo dopo aver superato un esame interno che certifichi che tu sai volare. E che, per caso, puoi anche venire al campo da solo. Io feci l’esame dopo più di due anni. Non mi sentivo pronto, fino al giorno in cui mi decisi. Con successo. E tenere in mano quella chiave fu per me come avere quella di un castello, o di un forziere prezioso.

Faccio "l’alzabandiera" con la manica a vento e con soddisfazione noto che non c’è alcuna bava di vento. Magnifico. Condizione ideale. Peccato che non si veda ancora nessuno. Sì perché il regolamento non "proibisce tassativamente", diciamo che "sconsiglia" di volare da soli. Un incidente può sempre capitare, e non ci sarebbe nessuno pronto ad intervenire. Poi, diciamoci la verità, l’idea di volare in assoluta solitudine l’ho sempre scartata. Troppa paura, anche se – a ben vedere – in mezzo alla pista rimani sempre da solo, come ho anche scritto nel mio blog Come un rigore nel cielo.
Così mi accascio sulla seggiola di plastica, mentre gocce di sudore mi irritano gli occhi.

Darko è lì. Fermo, ma solo all'apparenza. Dentro di sé scalpita, e dalla naca (grossomodo è il muso dell’aereo, nda) sembra quasi dirmi: "Dai Stefano. Approfitta del fatto che non c’è vento. Portami su!".
Lo ignoro, per qualche istante. Intanto guardo l’ora. Sono già le 15.00 e nessuno si vede. Uhmmm.
Tante volte, nei mesi scorsi, mi è capitato di rinunciare a volare perché quel giorno il campo era deserto. Così tornavo a casa,  col morale sotto ai piedi, e batterie da scaricare. Ma oggi…

Darko diventa insistente. La manica a vento resta una matita bianca e rossa perfettamente verticale. Zero vento. Anche la pista sembra chiamarmi come una Sirena vegetale. "Vieni… vieni novello Ulisse…". Sono confuso. Ho la sensazione che a chiamarmi sia la maga Circe e che debba pagare con un drammatico crash la mia superbia di sfidare le colonne d’Ercole e volare in totale solitudine..
Intanto inizia a farsi largo l’idea che di una giornata del genere vada necessariamente sfruttata. Volare da soli…. Dio che follia! "Pazza idea", l’avrebbe definita Patty Pravo. Eppure…

Guardo Darko, la manica a vento, la pista, poi ancora Darko, le batterie, l’orologio, il piccione che mi fissa da lontano con aria di sfida. Sudo. Colo. Mi asciugo. Impreco. Guardo il cellulare: nessun messaggio di speranza sul gruppo WhatsApp del campo. Riguardo la manica… beh… porca miseria il vento è a zero. Ulisse. Circe. Crash. Polistirolo che si sbriciola. Patty Pravo…

Fanculo.

Ho il cuore a mille. Apro il petto a Darko e ci infilo la batteria come se fossi Barnard(*). Calzo in testa l’immancabile cappellino (per utilità ma anche scaramanzia non ho mai volato senza) e guadagno il centro della pista.

Sono deciso come Russell Crowe nel Gladiatore. Eppure mi sento come un diabetico che entra in una pasticceria. So benissimo che "è sconveniente" quello che sto facendo, e nella testa mi balenano scene orripilanti di pezzi di polistirolo che sfavillano sull'erba, e già mi sembra di sentire quella vocina stronzina: "Te l’avevo detto…". Tuttavia…

Le Sirene hanno vinto. La manica ha vinto. Darko sorride, impavido. "Only the brave" mi ripeto. "Solo i coraggiosi". Così accendo il motore e parto. Darko sussulta, rimbalza sui ruotini, mangia polvere e gloria. Poi d’un tratto si stacca da terra e guadagna l’aria.

Sono fottuto. Penso. Ormai è fatta. O cado oppure atterro come un pilota Top Gun. Ma il dado è tratto.

Volo. Le mani mi tremano. Il sudore mi riga la faccia. I piccioni se ne stanno lontano. Immagino a guardare, e magari a prendermi in giro. Ma Darko è un grande. Sfila liscio, disegna geometrie che quasi mi sembra che faccia tutto da solo. Intanto il timer della radio incalza. Su un tempo massimo di sei minuti massimo di permanenza in volo, siamo già a tre. E allora viro. "Faccio un loop?"(**) mi chiedo. Sì. Ormai è fatta. E se dovessi pentirmi del mio ardore, almeno che ne sia valsa la pena.

Darko mi sorprende. Da cavallo imbizzarrito come mi sembrava solo pochi mesi fa, oggi sembra un placido animale da tiro. Intanto la radio corre. Quattro minuti. Entro due minuti al massimo devo atterrare.

Finora è andato tutto bene e davvero non so che darei perché una mano magica mi prendesse il modello in volo e lo posasse quieto accanto a me, senza dover atterrare. Sì perché questa è la manovra che proprio con Darko mi ha causato dei crash. "Only the brave", Stefano.

Cinque minuti, È ora. Applico tutte le procedure per l’atterraggio. Rallento, viro ampiamente e…
"Atterro!"" grido a gran voce. So benissimo che non c’è nessuno al campo, e quindi questo "annuncio di manovra" che normalmente è bene fare per avvertire gli altri piloti, è pressoché inutile. Forse finanche grottesco. Ma mi aiuta. Psicologicamente.

Scendo. Chiudo progressivamente il gas. Sudo. Anzi, colo.

Darko veleggia come un gabbiano. Perde quota. Con calma. Persino armonia.

Intanto i piccioni hanno tutti smesso di volare. Lo so. Stanno guardando con il fiato in gola.

Tre metri, due metri. "Togli gas!". Un metro…. Cabra. Cabra….
Darko tocca terra. Corre sulla pista e si ferma. Indenne. Orgoglioso. Sembra che dica: "Vedi, te l’avevo detto!".

Mi guardo attorno. Silenzio totale. Non c’è anima viva. Solo i piccioni riprendono a volare.

Guadagno il bordo della pista, con Darko e radio  in mano. E non mi sembra vero. Mentre mi accascio esausto ma profondamente orgoglioso sulla sedia, penso: "Ho sfidato la paura, le Sirene, Patty Pravo, i piccioni, il caldo, la sfiga, la sorte, l’erba secca… e ho vinto". Ho volato da solo.

Stasera, per festeggiare, una birretta a cena e tante cose da raccontare. Magari, con Lucio Battisti, canticchiando mentalmente: "Tu chiamale se vuoi… soddisfazioni".



(*) Christiaan Neethling Barnard (1922-2001) è stato un chirurgo sudafricano, assurto a fama mondiale per aver praticato il primo trapianto di cuore della storia della medicina.
(**) Detto impropriamente "giro della morte"


sabato 26 agosto 2017

Siamo tutti Peter Pan?

"Per Sindrome di Peter Pan si intende quella condizione psicologica  di chi non vuole crescere e diventare adulto. I soggetti affetti da questo disturbo, sono adulti giovani, che rifiutano l'idea di maturare e assumono atteggiamenti tipicamente adolescenziali. Tali atteggiamenti derivano da questo stato mentale di totale immaturità, rifiuto di assumersi ogni responsabilità e incapacità di impegnarsi seriamente in qualsiasi cosa che sia minimamente di intralcio alla propria spensieratezza e serenità" 
(Dott. Pietro Grattagliano, psichiatra e psicoterapeuta, www.psichiatrianapoli.it).

Quando ho letto questa frase non ho potuto che pensare a noi modellisti, soprattutto in riferimento alla presunta "non volontà di crescere e diventare adulto". Forse perché da molti questa attività hobbistica viene ritenuta un "gioco da adulti", e di conseguenza chi la pratica resta in fondo un bambinone che ha semplicemente tecnologizzato un gioco adatto a bambini e ragazzi.

Ed è vero?

Sì e no. Occorre per prima cosa inquadrare il termine "gioco" (in questo caso l’aeromodellismo dinamico) e dunque il "giocattolo" (il modello). Senza dover scomodare citazioni colte, si può dire che gioco è "qualsiasi attività liberamente scelta a cui si dedichino, singolarmente o in gruppo, bambini o adulti senza altri fini immediati che la ricreazione e lo svago, sviluppando ed esercitando nello stesso tempo capacità fisiche, manuali e intellettive" (Cfr. Vocabolario Treccani).
Gioca allora il bambino, e con questo esercita una miriade di funzioni cognitive ed emozionali che saranno fondamentali per una corretta crescita. Gioca l’animale giovane, e con questo esplora l’ambiente e impara le tecniche di comunicazione e le strategie di vita tipiche della sua specie. Gioca l’adolescente, spesso con "giochi" adatti ad un/a ragazzo/a in crescita e dunque sottoposto ad un cambiamento radicale sia fisico che psichico. Gioca anche l’adulto. Sì. Però in questo caso il gioco è curiosamente standardizzato, quasi "anestetizzato" di quella parte libera e anarchica che è tipica del gioco fanciullesco. Si gioca allora a carte, a scacchi, a tennis, a giochi di ruolo, a scendere lungo i torrenti, a scalare le montagne in mountain bike ecc. Giochi insomma dove vige la regola comunemente condivisa, la tecnica, l’abilità fisica o mentale.

Eppure non ho mai sentito dire a nessuno: "Gioco all'aeromodellismo". Perché?

Da una parte, qualcuno risponderebbe che "No, non è un gioco. È una cosa molto seria". Ma questo, però, potrebbe valere per molte altre attività. Dall'altra, dire di "giocare all’aeromodellismo" significherebbe prestare il fianco a coloro che (a torto o ragione) ci considerano dei bambinoni cresciuti. Dei novelli Peter Pan dell’aria. Allora preferiamo dire "Pratico l’aeromodellismo" (per contro è raro sentir dire "Pratico il tennis"), oppure meglio ancora "Sono un pilota di aeromodelli". Che poi chi pilota si diverta un mondo e davvero giochi in campo, l’ho ribadito più volte nei miei post precedenti.

Dunque "giocare" può essere una cosa molto seria, oltre ovviamente ad essere una pulsione tipica di ogni essere vivente. O quasi. Quello che cambia è invece il giocattolo. Vedere un manager cinquantenne giocare con le macchinine nel suo ufficio, lascerebbe tanti un po’ perplessi. A meno che… con lui non ci sia il figlio, o comunque un soggetto giovane e pertanto autorizzato a giocare con le macchinine. Allora il manager non solo verrebbe scusato, ma anche apprezzato come padre o amico socievole e amante dei bambini.
Vedere lo stesso cinquantenne giocare a tennis, non farebbe una piega. Ma anche – perché no – giocare in un torneo di giochi di ruolo. Il vero problema sembra dunque essere l’oggetto del gioco e l’immagine mentale che esso occupa nel pensiero comune. Quanto più esso evoca un legame con l’infanzia, tanto meno è adatto all'adulto. La macchinina è perfetta per il bambino. La macchinina radiocomandata da 1500 euro… uhmmm in mano ad un adulto è un po’ come se fosse né carne né pesce. Va bene, sì però… L’aereo è grossomodo lo stesso. Certo evoca l’aeroplanino del bimbo, ed il modello radiocomandato e costoso… sì è vero, non è da bambini, però…

Cos'è allora quel però finale. In sostanza: che perplessità crea chi fa volare un radiomodello e pure si diverte? Sì, perché di perplessità ne crea comunque! Credo che la risposta vada trovata in quanto appena detto: aereo = gioco bambinesco; aeromodello = ibrido tra bambinesco e adulto; adulto che gioca con aeromodello = boh?

L’aeromodellista è in sostanza un Peter Pan a metà. Gioca – perché, fuori dai denti, di questo si tratta – con la passione di un bambino, però deve avere capacità, competenze e spesso soldi da adulto per poter praticare questo hobby-gioco. È un ibrido, come detto prima. Uno "strano animale" di mitologica memoria: corpo da adulto e testa da bambino. Eppure, fuori dal campo, può essere una persona seria, responsabile, efficace, pragmatica. Un adulto, insomma.
Sarà anche per questo che spesso ci si avvicina a questo hobby da adolescenti, se non proprio preadolescenti. Soprattutto se in famiglia o tra gli amici c’è già qualcuno che lo pratica. Poi, una volta passato qualche anno, è frequente che il giovane pilota smetta. Perda interesse. Salvo poi, magari, riprenderlo una volta divenuto un uomo di mezza età. È come se il ragazzo ad un certo punto "si vergognasse" di giocare con qualcosa che idealmente lo rimanda all'età della fanciullezza, epoca che nell'adolescenza si vuole abbandonare il più in fretta possibile per apparire e sentirsi adulti. Poi, una volta terminata questa fase conflittuale, si può tornare a giocare serenamente, senza avere il timore di un giudizio sociale e del gruppo di pari.

A questo proposito ricordo chiaramente la volta in cui, preadolescente, il primo giorno di vacanza al mare tirai fuori dal sacchetto le mie biglie per giocare sulla sabbia. Come avevo fatto negli ultimi 7,8 anni. Quella volta, però, qualcosa mi bloccò immediatamente. Provai un indistinto senso di vergogna. Ero già cresciuto, e in un certo senso temevo quello che gli altri avrebbero potuto dire di me. Fatto sta che non giocai più. Ora, invece, non mi farei alcuno scrupolo a disegnare piste sulla sabbia e far correre i vari (dell’epoca) Gimondi, Moser ecc.

In conclusione credo che la sindrome di Peter Pan non possa essere applicata tout court all'aeromodellista nell'atto di compiere il suo hobby. E certamente non in tutte le accezioni proposte dallo psichiatra napoletano citato. Vale a dire che può essere una persona perfettamente matura  e in grado "di assumersi ogni responsabilità", nonché capace "di impegnarsi seriamente in qualsiasi cosa". Che poi mantenga e alimenti una forte pulsione ludica, questo è indubbio. Ma la cosa bella è che il più delle volte non si pone il problema di difenderla. Gioca e basta. E con i pari condivide serenamente questa passione. Anzi, nel gruppo di modellisti trova comprensione (relativa ad esempio ai soldi che si possono arrivare a spendere) e complicità che talvolta non trova fuori di esso. Sarà anche per questo che tanti frequentano il campo come se fosse un bar di paese: cioè si fermano ore semplicemente a chiacchierare, senza alzare in volo alcunché.

Confesso tuttavia che un pensierino ce l’ho ancora. Non è che chi ci giudica inesorabilmente "bambinoni", in fondo in fondo non prova un po’ di invidia per chi dimostra (o lascia immaginare) di divertirsi un mondo? 

giovedì 24 agosto 2017

Lezioni off-fly

Ho più volte fatto cenno a quella che io chiamo piccionaia (ovvero quello spazio di sosta ai margini della pista dove si radunano piloti che non volano ed eventuali visitatori), luogo dove le diverse personalità di chi frequenta un campo possono esprimersi e manifestarsi. Ma anche luogo dove si possono svolgere attività diverse: socializzare, rilassarsi, godersi il volo altrui e persino imparare. Sì. Se si ha la voglia, l’umiltà, nonché la predisposizione a raccogliere tutto ciò che questo hobby può regalarci, la piccionaia può davvero diventare un’aula di lezione off-fly, ovvero "senza volo", a terra.  

Gli spunti sono diversi. Tante volte ho chiesto ai "vecchi" del campo nozioni di aerodinamica, delucidazioni su manovre acrobatiche, informazioni tecniche su motori, batterie ecc. Ma il più delle volte sono stati gli eventi del campo a fornirmi spunti utili. Persino un crash. Come pochi giorni fa.

Stavo ammirando il modello di un collega sicuramente esperto, quando al secondo volo l’ho visto con la coda dell’occhio precipitare di muso andando a sfracellarsi in un campo vicino. "Cos’è successo?" gli ho chiesto una volta tornato in piccionaia con pezzi d’aereo tra le mani. "Non so. Sono andato in vite e poi non sono più riuscito a riprenderlo".
Traduco per i non addetti ai lavori: la vite è una manovra acrobatica in cui l’aereo scende di quota avvitandosi letteralmente su se stesso grossomodo attorno al suo asse verticale. Questa prevede una discesa controllata con una ripresa della linea di volo normale. Cosa che non è successa al mio collega.
Dunque un’acrobazia non è riuscita. Le possibilità erano due: soprassedere, tanto è probabile che per almeno qualche anno non farò mai una manovra del genere; oppure chiedere consiglio su cosa fare (a parte affidarsi alla bontà divina) in un caso simile. Io ho scelto la seconda. Anzi, per la precisione ho ascoltato con attenzione i suggerimenti che uno dei piloti più esperti del campo (nonché mio tutor iniziale) ha dato. Probabilmente, dunque, non solo non farò mai quell'acrobazia ma – in caso di problema simile – difficilmente avrei il sangue freddo per mettere in pratica quanto suggerito. Però non si sa mai. Un angolo del cervello ha registrato quella informazione. E non è detto che – incoscientemente – le mie mani nel caso lo ascoltino al momento opportuno.  

D’altra parte l’arrivare al punto in cui certi automatismi mentali scattano senza dover attivare il pensiero per metterli in atto, è una importante conquista derivante dall'esperienza. "Devi arrivare a quel punto, perché alcuni modelli non ti daranno il tempo di pensare. Devi fare e basta", mi sono sentito ripetere a lungo. Ed è vero. Oggi posso dire che “non penso” di virare a destra o a sinistra. Lo faccio e basta. Anche quando il modello è posto frontalmente a me, e dunque i comandi sono invertiti. Talvolta, però, il cervello va in tilt.

Mi è successo circa dopo i primi due anni di volo, con il mio aereo-scuola. Avevo già acquisito suddetti automatismi, quando un giorno, con il modello pronto per l’atterraggio e quindi posto di fronte a me, "dimenticai" l’inversione dei comandi. Per qualche istante vidi l’aereo galleggiare pericolosamente verso la piccionaia. Ma… non ci fu verso. Il cervello era andato totalmente in tilt. Così, invece che virare semplicemente dalla parte opposta della direzione intrapresa, continuai in quella. Risultato: come un goffo albatros il mio modello si appoggiò letteralmente tra la rete di protezione e le prime file di piloti in attesa. Senza danni, ma con grande stupore e rammarico da parte mia.

Anche in quel caso, cosa feci? A casa, sul simulatore al computer, ripetei la scena per capire cosa fosse successo. Salvo poi comprendere che "ero andato in palla". Quasi ipnotizzato dall'incidente imminente che si stava profilando, senza tuttavia riuscire a rimediare. Un errore che per fortuna non è più successo. Anche se occorre ricordare: "mai dire mai!". 

lunedì 21 agosto 2017

La fiducia

Fateci caso. Per molti automobilisti l’autovettura è uno strumento, un vero e proprio "mezzo" il cui scopo – il trasporto di persone e cose – è evidente. E come tale viene gestita. Cioè viene tenuta in ordine, più o meno pulita, efficiente per quanto possibile, e poi basta. Il rapporto uomo-auto termina lì. La psicologia ci insegna tuttavia che si può andare oltre. L’autovettura diventa un ennesimo microcosmo al cui interno ci trasformiamo. Smettiamo allora di essere Mario, stimato ingegnere elettronico, Fabio panettiere, Luigi studente, e diventiamo all'improvviso altro da noi. E il fatto stesso che l’auto sia fisicamente chiusa, aumenta questa percezione di un mondo totalmente nostro, dunque privato e nel quale poterci trasformare in ciò che magari non avremmo mai pensato di diventare.
Vengono spiegate così le crisi d’ira, di rancore e frustrazione che talvolta sfociano in tragedie della strada. Duelli tra auto che si trasformano in sfide al cacciavite, oppure inseguimenti da film per mancate precedenze, fino magari alla rissa o – purtroppo – all’investimento volontario.

Nel mondo dell’aeromodellismo può accadere qualcosa di simile. Ho più volte detto che i modelli hanno un’anima. È vero, ma non per tutti. Al pari dell’auto che è un complesso sistema di ferro, plastica, cavi e strumenti, il modello è anch’esso un prodotto fatto di balsa oppure polistirene espanso ed estruso (detto comunemente Epo o Depron, a seconda della lavorazione), cavi e qualche congegno elettronico e meccanico. E da qui si parte. Per qualcuno resta tale. Ovvero è un oggetto, bello finché vuoi,  ma pur sempre un qualcosa di immateriale che può dunque avere un destino avverso, senza con questo creare grossi patemi d’animo. Per qualcun altro no. Il modello assume un’anima perché non ce n’è uno uguale all’altro in termini di dinamica di volo e risposta ai comandi, anche se si tratta dello stesso tipo di aereo della medesima marca.
Ecco perché tanti modellisti ne hanno diversi a casa e, seppur fermi da tempo in cantina, non vengono ceduti. Perché sono come delle creature viventi che "hanno una loro personalità". Ed ecco perché capita (a me sempre) che al modello venga dato un nome. Ho ad esempio citato più volte il mio Darko, che di fatto è un modello MXS della FMS-RocHobby. E che dire di Kuća, il mio aereo-scuola U Can Fly della Hype, il cui nome (in croato significa "casa") e che è di buon augurio che il modello torni sempre da me sano e salvo.

Prendendo come punto di partenza quanto ho appena detto, è più facile comprendere il concetto di fiducia applicato anche al modello.
Si tratta di un atteggiamento mentale che tante volte viene applicato al campo volo, ma riferito a persone viventi. Io ad esempio, ho fiducia nell’istruttore che mi sta insegnando; e quale grande fiducia devo riporre nel collega a cui ho messo in mano il mio modello nuovo fiammante, perché faccia lui – che è più esperto – il primo collaudo di volo?

Un rapporto di fiducia del tutto particolare si può instaurare anche con il modello.
"Ma come?", potrebbe obiettare qualcuno. "In fondo si tratta solo di una macchina complessa che risponde ai comandi che gli vengono impartiti. Fiducia o non fiducia, se tu piloti bene lui va. Altrimenti cade".
È vero, non c’è dubbio. Ma chi ragiona così lo fa esattamente come chi vede nell’automobile un semplice mezzo di trasporto.
Chiunque un po’ esperto dirà che il proprio modello va conosciuto. Si deve insomma fare esperienza di come reagisce ai comandi, come si comporta alle diverse velocità di volo, come può essere influenzato dal vento ecc. Questa conoscenza è tipicamente - direbbero i comportamentisti - basata su un sistema per prove ed errori. Cioè attraverso gli sbagli imparo cosa è meglio per me, cosa funziona e cosa no. Si diventa così padroni del mezzo e si evita, come tante volte mi sono sentito dire, il problema che "lui (riferito all’aereo, nda) fa quello che vuole".
Attraverso la conoscenza, scopri piacevolmente che da cavallo imbizzarrito stile lungometraggio a cartoni animati Spirit, l’aereo può diventare un soggetto da dressage (disciplina equestre dove cavallo e cavaliere eseguono precisi movimenti prevalentemente geometrici). Anche se resta quella piccola percentuale di sorpresa, di imponderabile, per cui – soprattutto per un problema tecnico o meccanico – il modello torna ad impazzire e spesso a cadere.

Quella conoscenza che cresce per prove ed errori, quella sorta di addomesticamento che il pilota deve comunque fare con il suo aereo (o elicottero, non c’è differenza) può produrre quella fiducia a cui ho fatto cenno. Per assurdo che possa sembrare, io pilota arrivo a fidarmi del mio modello.

A questo proposito può essere significativo quanto mi successe qualche tempo fa, e che in parte ho già raccontato nel post La paura. Dopo un incidente con il mio Darko dovuto ad un problema tecnico per il quale davvero mi trovai tra le mani un aereo impazzito difficile da domare, io smisi di usarlo per diversi mesi. Avevo paura, certo. Ma anche avevo smesso di fidarmi di lui.
Quel crash così inatteso e infido, aveva minato quel “nostro” rapporto tecnico-affettivo. Non me l’aspettavo.
Poi, dopo mesi, lo ripresi in mano. Con il cuore in gola. Ma uno, due, tre e tanti altri voli hanno fatto sì che la fiducia tornasse. Non che siano mancati altri piccoli incidenti, ma tutti legati ad un mio errore di pilotaggio, non "suo". E da allora ho smesso di volare con il mio rattoppato aereo-scuola, e svolazzo con Darko.

Assolutamente rilassato? No. Fiducioso…  

venerdì 18 agosto 2017

L'insostenibile leggerezza della gravità

Al mondo esistono due tipi di elicotteristi. Quelli che sono già caduti, e quelli che lo faranno”.

Lessi questa frase in un manuale in inglese scaricato da Internet, proprio nel momento in cui iniziavo ad avvicinarmi all'aeromodellismo. "Beh… che bell'inizio", pensai tra me e me. Salvo capire in seguito che in effetti la caduta, il crash come lo chiamiamo noi, non solo è sempre e comunque dietro l’angolo, ma diventa un po’ come quelle ammaccature che ogni automobilista ha procurato almeno una volta nella sua vita all'automobile. E il fatto che venisse riferito ad un pilota di elicotteri (aeromodello certamente più difficile da pilotare di un aereo) non salvaguardia in alcun modo il pilota di quest’ultimo.
Per dirla tutta, il crash è come se fosse una sorta di rito di iniziazione alla maggiore età. Prima sei un "pulcino", poi inizi a diventare un aquilotto che inizia a farsi le penne, assieme all'esperienza. Ma devi passare attraverso questa insostenibile leggerezza della gravità, per cui il modello è inesorabilmente attratto verso la nuda terra; che poi ci arrivi dolcemente oppure in maniera più diretta e pericolosa, dipende da te, ma non solo.

La casistica degli incidenti si riduce di fatto  a tre possibilità: sbaglia in qualche modo il pilota; si verifica un problema tecnico; succede qualcosa di imponderabile.

Nel primo caso sono soprattutto l’inesperienza e – per assurdo – la troppa fiducia, a tradire chi sta pilotando. Ovviamente chi è alle prime armi commette una serie di errori, soprattutto di manovra e di valutazione della quota, della velocità ecc. che facilmente portano ad un crash. Anche per questo motivo è consigliabile iniziare con modelli robusti, poco costosi e soprattutto grandi e lenti.
Meno scontato è invece il fatto che la troppa fiducia induca all'errore. Proprio pochi giorni fa vidi un collega riportare dai campi che costeggiano la pista brandelli di polistirolo che era ciò che rimaneva di un modello bello e veloce, di cui avevo ammirato compiere il collaudo solo poche settimane prima. E alla domanda su cosa fosse successo (tenendo conto che si tratta di un pilota bravo ed esperto), la risposta fu perentoria: "Eh… ho fatto il pirla! Diciamo che ho un po’ esagerato…".
Ecco allora che il crash diventa questa volta una livella capace di smussare l’ardore dei novelli Icaro, ai quali viene ancora una volta ricordato che "alla forza di gravità non si comanda".

Nel momento in cui invece si verifica un problema tecnico, allora – come disse un pilota anziano di campo – ci vuole "sangue freddo, esperienza e una grossa dose di culo".
Dipende poi dal tipo di problema. Un motore a scoppio che si ferma all'improvviso in volo, induce ad un atterraggio di emergenza che spesse volte riesce senza troppi danni. Un alettone che invece si blocca oppure che resta in una posizione anomala a causa di un servo (è il meccanismo che lo fa muovere, nda) che ha smesso di funzionare, allora è davvero un bel guaio e un atterraggio rovinoso è pressoché scontato.

C’è infine il caso dell’imponderabile. Tra questi eventi racchiudo ad esempio il modello che ti viene addosso mentre sei in volo, l’improvvisa raffica di vento che ti sconquassa la traiettoria e la quota, ecc. In questi casi veramente tornare con il modello integro a terra è quasi da miracolati.

Posto dunque che il crash è inevitabile, educativo e persino democratico (in quanto colpisce tutti, anche il pilota più esperto), è interessante capire come reagirvi.
Il fatto stesso che debba comunque essere messo in conto, da una parte aiuta, perché non ci si sente né degli incapaci né dei perseguitati dalla iella. Poi sta al pilota. C’è chi dopo le prime cadute ha deciso di mollare tutto; chi si dispera e ha bisogno subito di pilotare nuovamente per superare lo choc che potrebbe anche indurlo ad avere il terrore di volare; chi se la prende con se stesso, però non ne fa una tragedia e si mette subito all'opera per riparare il modello; chi, infine, la prende veramente con grande distacco. Forse perché ha tante di quelle cadute alle spalle che ha deciso che non vale troppo la pena starci male.

Questione di indole, di carattere, ma anche di disponibilità economica. Il fatto che cada e si distrugga una "scatola di biscotti volante" (come l’ho definita in un altro post) ha certamente un peso minore rispetto allo stesso incidente accaduto ad un modello da 1500 euro. Il fatto che poi qualcuno abbia un solo modello e lo distrugga, pesa certamente di più rispetto a chi di aerei ne ha 5 o 6 a casa. Insomma, le variabili sono davvero tante. L’unica costante resta una: la forza di gravità; quella fisica, non la valutazione di quanto un crash sia stato psicologicamente più o meno duro! 

lunedì 14 agosto 2017

Hely, mon amour!

Fino all'età di circa trent'anni ho abitato in Piemonte, in una casa posta in cima ad una collinetta che dominava un piccolo paese. Quella posizione da una parte la faceva sembrare il castello di Don Rodrigo di manzoniana memoria (cfr. I promessi sposi), dall'altra aveva un inaspettato vantaggio di essere praticamente sopra una piccola caserma dei Vigili del Fuoco.
L’attività di quest’ultima non era certo febbrile. Aveva però il vantaggio di essere munita di una piazzola per l’atterraggio degli elicotteri, munita della inconfondibile grande H gialla. Ogni tanto, dunque, complice anche il fatto che a poche centinaia di metri ci fosse il centro direttivo della ex Olivetti, qui atterravano elicotteri sia dei Vigili che privati. Ed ogni volta era un evento.

Fortuna voleva che io avessi la mia portafinestra che dava proprio su quel lato della casa a "favore di caserma". Quindi, mentre studiavo in camera, potevo sentire da lontano l’elicottero avvicinarsi. Era il segnale! Con tutta probabilità sarebbe atterrato sulla piazzola. Potevo sentire il rumore delle pale e del rotore di coda frustare l’aria con quel tipico schiocco tanto noto e caro agli appassionati di elicotteri. Così correvo sul balcone, e con mia grande gioia, attraverso le fronde degli alberi, potevo vedere la sagoma dell'Hely (com'è comunemente chiamato dagli appassionati) profilarsi all'orizzonte, virare a 100 metri da me e scendere dolcemente sulla piazzola.

Il rumore era tanto caro quanto assordante. Bellissimo. Dopo pochi minuti cessava, e il bestione restava fermo lì, tranquillo, a farsi ammirare da me che riuscivo a scorgene solo una parte. Era un "ti-vedo non-ti-vedo" affascinante. Ed allora aspettavo che ripartisse. Magari lo faceva dopo pochi minuti, giusto il tempo di far scendere qualche funzionario pubblico oppure un dirigente della grande società privata. Altre volte no. Passava anche un’ora. Ed allora ritornavo alle mie occupazioni. Ma bastava il classico rumore dei motori che si accendevano, per farmi tornare di corsa sul balcone. Di nuovo lo schioccare delle pale, sempre più forte. Fino a che il bestione si alzava, gigante, tra le fronde e con un colpo di pala virava e andava via.

Credo che il mio interesse per gli elicotteri, lo stesso che mi ha avvicinato per primo all'aeromodellismo, sia stato nutrito proprio da quei momenti. Da quel fascino. Così, con il passare del tempo, non essendo mai diventato un pilota “vero”, ho dirottato la passione sui modellini coassiali. Più facili da pilotare anche in casa, con ogni tempo. Ho costruito piazzole di cartoncino munite di H, e gioco a farci atterrare sopra i modellini, con la massima precisione possibile.

Non è certo la stessa cosa. Però il fascino di questa macchina volante resta qualcosa di speciale. Diversa pure dall'aereo. Ho provato più volte a chiedermi il perché, senza trovare risposte valide. Forse perché probabilmente il tutto nasce da quel fascino provato sul balcone. Un amore a prima vista e a primo orecchio, che è rimasto ed è cresciuto. Ancora oggi.

sabato 12 agosto 2017

E tu, che pilota sei?

Ho detto più volte che il campo volo rappresenta un microcosmo  in quanto "centro di un'attività sociale che come tale ha delle caratteristiche proprie". Non è difficile, dunque, immaginare che – pur con tutte le sfaccettature del caso - sia popolato di personaggi riconducibili a diversi profili, talvolta “contaminati” uno con l’altro. Eccone dieci:

IL SOLISTA – Per indicare il personaggio che, al campo, opera spesso in totale autonomia prendo a prestito il nome con cui viene chiamato il pilota della nostra Pattuglia Acrobatica Nazionale che svolge un programma di volo perlopiù da solo (sebbene in armonia con il resto della formazione). In genere arriva in orari in cui la pista è libera. Meglio se durante la settimana. In fondo non è la socialità che cerca, semmai il campo dove poter volare. Allora parcheggia l’auto, tira fuori modello e ombrellone, saluta velocemente gli eventuali presenti, e subito inizia ad armeggiare intorno alla cassetta degli attrezzi. Il fatto è che lì resta la maggior parte del tempo. Di solito, infatti, non frequenta quello "spazio comune
" dove tutti i piloti che non volano se ne stanno seduti a chiacchierare e a osservare cosa succede.
Poi vola. Una, due, tre volte e così via. Concentrato disegna figure nel cielo, compiacendosi della sua abilità o rimarcando con una smorfia eventuali errori o figure "poco pulite". Ma tutto nel suo animo. Senza commentare ad alta voce, o confrontarsi con gli altri.
Motivo di tale chiusura potrebbe essere la timidezza, certo. Ma in altri casi è proprio un’indole solitaria, per cui necessariamente deve frequentare uno spazio-volo condiviso da altri (non può volare nel giardino di casa!), ma non per questo si ritiene tenuto a “fare salotto”.

IL COMPAGNONE – È evidente fin dal nome che ci troviamo agli antipodi del “solista”. Il compagnone è una vera manna per il campo volo. Fin dal suo arrivo suscita una ridda di saluti entusiasti. Ed è subito un intrecciarsi di mani che si stringono, di pacche sulla spalla, di sorrisi e battute. Da vero leader emotivo (*) ha una parola per tutti: "Allora Stefano, è un po’ che non ti si vede!". “Mario, ma che c…zo hai combinato l’altro giorno con il modello". "Francesco, che bel modello hai portato!" (ridendo; in realtà lo sta prendendo in giro).
Caratteristica del compagnone è il fatto che è in grado di arrivare al campo senza neanche un aeroplanino di carta da far volare. Magari è un pilota esperto, bravissimo. Però quello che per lui conta è la socialità, non l’aerodinamica. E lo "spazio comune" diventa il suo palcoscenico. Racconta barzellette, gioca a prendere in giro i piloti per i loro errori oppure ne denigra scherzando l’estetica del modello. Insomma è un vero mattatore che tante volte confessa di vedere il campo come un’oasi per sfuggire agli impegni familiari fatti di spesa, pulizie, giardino da tagliare, suocera da andare a trovare ecc.
Sia chiaro: non tutti i compagnoni hanno necessariamente una casa da cui scappare. Diciamo però che spesso capita, e così è in grado di trovare nei colleghi piloti una sorta di "branco di simili" con cui scherzare e da cui essere non solo apprezzato ma anche compreso.

(*) In sociologia viene grossomodo definito tale colui che, pur non avendo un ruolo direttivo ufficializzato da un gruppo, grazie al suo carisma assume un’autorità tale che a volte offusca quello del leader riconosciuto.

IL SOCIEVOLE – Tra i due estremi, ovvero l’ombroso solista e il brillante compagnone, si piazza il socievole. Ovvero l’ 80% di chi frequenta un campo volo. Costui vive serenamente le dinamiche del microcosmo, partecipa con assiduità alle riunioni, alle iniziative sociali (tipo cene, grigliate ecc.) e agli occhi di tutti appare come una persona “piacevole ed educata”.
Il socievole può ritagliarsi dei momenti suoi in cui magari si apparta magari solo per concentrarsi o godersi la giornata, assieme ad altri in cui – soprattutto se è di buon umore – partecipa attivamente alle discussioni e ad eventuali progetti di miglioramento delle attività del campo.

IL PATITO – A questo punto chiedo: alzi la mano chi, aeromodellista, non ha almeno una maglietta, un cappellino o uno stemmino legato al mondo che tanto ci piace. Credo nessuno. Ed è normale che sia così. Bene… il patito va decisamente oltre. A cominciare dall’abbigliamento.
Ho visto con i miei occhi un personaggio con: cappellino delle Frecce Tricolori (Ok ci sta); occhiali da sole marca Ray-Ban stile Top Gun (Ok…); felpa dell’Aeronautica Militare (costano un botto, però se uno se lo può permettere…); da sotto la felpa spuntava una T-Shirt con semplicemente il girocollo con il tricolore (è la maglietta usata anche dai nostri piloti della Pattuglia Acrobatica); pantaloni dell’Aeronautica Militare (vedi commento sopra); scarpe (boh… forse neutre); borsello delle Frecce Tricolori; portachiavi delle Frecce Tricolori. Giuro che non so che mutande avesse, ma ho qualche sospetto…
Eccolo il patito. Colui per il quale tutto, dico tutto, deve esternare la sua passione. E lo vedi, muoversi con agilità e leggiadria tra i colleghi, sicuro di sé, forte della sua comunicazione non-verbale che  erutta aeromania da ogni fibra tessile. I suoi, poi, non sono mai “modelli”. Sono “riproduzioni” di aerei o elicotteri effettivamente esistiti o esistenti. E se per caso sbagli a dire: "Mio Dio che bello questo modello", lui subito ti corregge: "Vuoi dire il mio Focke-Wulf Fw 190, seconda edizione del 1943?". "Sì… proprio quello intendevo…".
Diciamo subito che il patito è assolutamente innocuo dal punto di vista della dinamica del microcosmo. Cioè il più delle volte non è arrogante, né rompiscatole. Semmai è una macchietta divertente, se presa nella giusta maniera, ovvero con un sorriso.

IL TECNICO – Formazione scientifica. Mente ingegneristica. Preparazione maturata perlopiù "a bottega", ovvero non solo sui libri ma materialmente con le "mani in mano". Ecco quale potrebbe essere il profilo medio del tecnico. Costui si distingue dagli altri perché sa rispondere assolutamente a tutto ciò che è meccanica, elettronica ecc. Solo che lo fa da tecnico.
Se solo ti sbagli a chiedergli: "Scusa ma secondo te la mia batteria LiPo a tre celle può andare bene per…", lui non ti lasca finire e inizia a chiederti: "Watt, ampere, resistenza, numero atomico del litio, composizione chimica dei polimeri, corrente del regolatore del tuo modello, capacità di assorbimento del motore…". "Ok grazie…" e svicoli lentamente con un sorriso e la faccia di colui a cui hanno chiesto di tradurre una frase dal cinese antico .
Il tecnico va dunque bene per dialogare con i suoi simili. Tra loro si capiscono e certo si apprezzano. Sul campo può essere un toccasana anche lui. Se riesci a mettere in pratica il 10% di quello che, da non-tecnico, riesci a comprendere!

IL COMODO – Benché l’aeromodellismo non richieda un abbigliamento particolare, è bene che in ogni caso ci si vesta in maniera pratica, senza troppi fronzoli che possano impicciare la guida del modello. L’unica accortezza è un cappellino d’estate (per evitare colpi di calore) e un paio di scarpe adatte a non scivolare sul manto erboso. Tutto qui.
C’è comunque chi interpreta questa libertà di dress code (come la chiamerebbe qualcuno) in maniera del tutto sua. Sempre con i miei occhi ho visto piloti a torso nudo, calzoncini, infradito e sigaretta in bocca! Fantastico…

IL TUTTOFARE – Eccoci arrivati al vero eroe di ogni campo. L’uomo indispensabile, prezioso come l’oro. Il tuttofare è colui che è in grado di tagliare l’erba, aggiustare la recinzione di sicurezza, intervenire su un impianto elettrico ed idrico. Sa pure pilotare e magari è anche un compagnone. E che vuoi di più?

L’ENCICLOPEDICO – Questo personaggio ha un qualcosa del patito e del tecnico. Diciamo che è un ibrido eccezionale da conoscere, ma a volte anche un po’ stancante. Lui è il collega che sa tutto di ogni aereo dal 1900 ad oggi. E andrebbe benissimo, se ogni tanto non tendesse delle trappole involontarie.

Ecco allora un esempio di dialogo a cui effettivamente sono stato sottoposto:

IO: "Oh cavolo, l’altro giorno Luigi ha fatto un crash con il suo modello!"
ENCICLOPEDICO: "Quale?"
IO: "Beh… quello grosso rosso"
EN.: "Il Cessna vuoi dire?"
IO: "Beh… sì quello ad ala alta".
EN: "Lui però ne ha di vari tipi. Tu intendi il 152, il 172 o il 182?"

Io intanto inizio a sudare… poi cerco uno smarcamento un po’ vile. "Beh… quello rosso…".

EN: "Ho capito ma come aveva il profilo alare?".
IO: "Bello…".
EN: "Dai non fare lo scemo. L’elica che passo aveva?"

Io continuo a sudare…

EN: "Oh insomma, che pilota sei? Era il 172 o il 182, sono entrambi rossi!".

Dopo un paio di altre domande cedo, e mi rifugio in corner: "Guarda… credo che ormai l’abbia già riparato. Vado a volare che non c’è nessuno in pista…".

IL CREATIVO – Per lui andrebbe bene il famoso slogan La fantasia al potere. Sì, perché il creativo è colui che è un grado di realizzare macchine volanti spesso improbabili, che tuttavia riescono a guadagnare il cielo e a svolazzare degnamente. Ma non solo. Il creativo è in grado di fare ricerche ad hoc per personalizzare il suo modello e renderlo quanto più possibile identico all’originale, di una data precisa e di una specifica aerobrigata. Dunque ha una doppia faccia: fantasia ma anche rigore.

IL NOSTALGICO – Chiudo questa parata di dieci profili con il personaggio forse più romantico e tenero: il nostalgico. Generalmente è un pilota già avanti con gli anni, di quelli che ha vissuto la prima era dell’aeromodellismo. Tempi eroici, di cui parla volentieri con gli occhi che si emozionano.
Lui però non è di quelle persone che vivono nel passato. Riesce perfettamente – a modo suo – ad essere contemporaneo.
Se non fosse per quel modello con cui vola, che sembra uscito da un filmato You Tube degli anni ’60. Bellino, per l’amor di Dio, ma chiaramente vetusto, con una concezione vecchia di costruzione e funzionamento. "Guarda che vola benissimo, meglio del tuo!" è capace di dirti con vigore. Ed in effetti la sua "bestiola vecchietta" scalpita in cielo a tal punto da non sfigurare con gli altri. Ogni tanto il motore tossisce, e i passaggi a bassa quota sono rumorosi come un cinquantino smarmittato.
Ma che vuoi dire, quando il nostalgico ti dice: "Guarda che roba! Bellissimo…."?

venerdì 11 agosto 2017

Aeromodellista, in che “senso”?: Parte 3 – Tatto, gusto e olfatto

Concludo la mia analisi sui "sensi" dell’aeromodellista prendendo in considerazione quelli che risultano meno significativi per la specifica attività di pilotaggio. A cominciare dal tatto.

Questo può essere inteso in senso lato come "sensibilità delle dita". In quest’ottica sì, certo, assume un’importanza notevole. Infatti una delle cose difficili da imparare soprattutto per chi inizia (talvolta anche chi è più esperto conserva una mano un po’ pesante) è quella di riuscire ad avere una buona sensibilità sugli stick della radio con le dita o i pollici, a seconda di come uno è abituato a guidare. Un tocco lieve può infatti produrre nel modello una virata o un beccheggio di cabra e picchia (in sostanza il muso va su o giù) davvero sensibile. E talvolta pericoloso, tale da far rischiare una caduta.

C’è tuttavia un aspetto che voglio comunque ricondurre al tatto e che mi è stato suggerito da un collega "anziano" del campo. Mi disse un giorno: "Il vero pilota spesso non ha bisogno di guardare sempre come si posiziona la manica a vento per conoscerne la direzione. Lo sente sulla pelle".
Trovo questa osservazione fantastica. Riuscire a sentire addosso da dove soffia il vento significa infatti avere un’esperienza sul campo, in ogni condizione atmosferica, davvero notevole. Eccolo allora il tatto. Quello del vento sul viso, o sul tronco se d’estate. Una carezza che ci ricorda come sia un hobby a stretto contatto con l’ambiente, e dunque ci riconduce anche ad un altro senso: l’olfatto.

Insieme al gusto, ovviamente anche l’olfatto ha un valore puramente connotativo dell’attività di pilotaggio. Con una battuta mi verrebbe da dire che è utile solo per capire se ad esempio il regolatore del motore è bruciato… oppure il caffè è pronto. Ma a parte questo, ha come unica utilità quella di dare sensazioni piacevoli al pilota.
Fin da ragazzo ho abitato in luoghi vicino al verde. Questo ha fatto sì che ad ogni cambio di stagione io sentissi un odore diverso nell'aria. L’inverno aveva un odore; la primavera un altro, ecc. L’estate… no. Faceva solo caldo!
La stessa sensibilità l’ho portata sul campo, e sono certo che molti altri provino le stesse cose. L’aeromodellismo, lo ripeto, è un’attività che ti porta a contatto con l‘ambiente. Freddo, caldo, umido, secco. Se vuoi volare tutto l’anno devo essere pronto a questo. "Certo si schiatta di caldo, ma se avessi voluto il fresco anche nei miei hobby avrei scelto il curling, non l'aeromodellismo", scrissi pochi giorni fa sul mio profilo Facebook. Ecco allora che l’olfatto ci accompagna. E, perché no, magari ci coccola pure, nel momento in cui ci rilassiamo seduti a bordo pista

Concludo con il gusto. A prima vista non ha nulla a che fare con l’aeromodellismo. Però… - e lo dico a chi non ha mai provato - posso assicurare che un bicchierino di caffè preparato al campo, su un fornello da campeggio e una caffettiera che in casa probabilmente butteremmo nel giro di tre secondi… beh… ha un gusto tutto suo che ti scalda le budella e l’anima. Soprattutto se fa fresco e magari sei appena atterrato, orgoglioso, “pennellando la pista”.

giovedì 10 agosto 2017

Aeromodellista, in che “senso”?: Parte 2 – L’udito

Nella prima parte di questo esame dei 5 sensi fondamentali dell’aeromodellista, ho parlato della vista. Ora è la volta dell’udito che, per ordine di importanza, si piazza al secondo posto.

Ricorderò sempre che, quando stavo imparando a guidare l’automobile, mio padre mi ripeteva: "Attenzione! Ricordati che si guida con le mani, gli occhi ma anche le orecchie". Ciò significa che occorre imparare a interpretare il rumore del motore, a valutare l’effetto dello scalo delle marce del cambio, ma anche a valutare rumori fuori dalla normalità.
Direi che lo stesso – fatte le dovute differenze – si può applicare benissimo all'aeromodellismo. Soprattutto per i motori a scoppio, è fondamentale imparare a interpretare il rumore del motore. Col tempo e la pratica, infatti, si riuscirà a capire se la carburazione è corretta, oppure è troppo grassa o al contrario troppo magra. E non è cosa da poco, soprattutto tenendo conto che queste regolazioni dipendono molto anche dalle condizioni atmosferiche e di temperatura presenti quel giorno sul campo. Sbagliare una regolazione significa spesso avere il motore del modello che si spegne all'improvviso in volo, costringendo il pilota ad un atterraggio di fortuna che molte volte è rischioso e talvolta fatale per l'integrità dell’aereo stesso.

Un discorso simile può essere fatto per gli aerei elettrici. Qui ovviamente non si parla di carburazione. Però un rumore sospetto, un suono meno "rotondo e armonico" come lo si conosce, può indicare che l’elica è stata stretta male, oppure che è sbilanciata. Ma attenzione: bastano pochi millimetri.
Nel mio caso da qualche giorno notavo che il rumore del mio Darko era meno pulito del solito. "Sembra un motore a scoppio" mi disse un collega del campo. Io guardavo l’elica, l’attacco e l’ogiva e quello che potevo notare era solo uno spostamento di uno, forse due millimetri della base dell’elica dal suo alloggiamento ottimale. Poi, quando ho dovuto eseguire una riparazione al carrello, ho deciso di rettificare anche l’elica. Beh… fin dal primo volo successivo il rumore era tornato ad essere pulito come lo conoscevo.

L’udito, però, non ha solo una fondamentale funzione pratica. Esattamente come la vista, anch'esso può essere un senso "connotativo", cioè che "può aggiungere e regalare emozioni a chiunque sappia coglierle". Mi riferisco soprattutto al sound del modello.
Una delle frasi più frequenti che ho sentito al campo, parlando di motori, è: "Ah no… io preferisco il motore a scoppio, anche per il suono che produce". E non è difficile immaginare il perché. In altri post ho già detto che una componente affascinante di questo hobby è il fatto di far volare qualcosa che il più possibile riproduce la realtà. Dunque il rumore del motore a scoppio è semplicemente "più realistico", e dunque più bello! Per non parlare poi di certi modelli muniti di motore a turbina. Qui davvero c’è da farsi venire la pelle d’oca per il realismo del sound che ricorda assolutamente i jet. Se poi aggiungi una costruzione fedele alla realtà, il senso di realismo è davvero spettacolare.

C’è tuttavia un altro aspetto dell’udito che vale la pena di ricordare. È il saper ascoltare. Mi riferisco in questo caso ai consigli dei "vecchi" del campo, che nella stragrande maggioranza dei casi si riveleranno utili e in qualche caso salva-modello. Ma saper ascoltare vuol dire anche imparare a cogliere frasi, testimonianze, ricostruzioni di fatti avvenuti che magari si disperdono tra i tanti discorsi che si fanno in piccionaia (ho definito così quello spazio fuori dalla pista dove i piloti attendono il loro turno di volo o semplicemente sostano tranquilli) e che possono ugualmente essere fonte di apprendimento.
Dunque, in conclusione di queste prime due capitoli, il messaggio è chiaro: occhi ed orecchie aperte!