sabato 26 agosto 2017

Siamo tutti Peter Pan?

"Per Sindrome di Peter Pan si intende quella condizione psicologica  di chi non vuole crescere e diventare adulto. I soggetti affetti da questo disturbo, sono adulti giovani, che rifiutano l'idea di maturare e assumono atteggiamenti tipicamente adolescenziali. Tali atteggiamenti derivano da questo stato mentale di totale immaturità, rifiuto di assumersi ogni responsabilità e incapacità di impegnarsi seriamente in qualsiasi cosa che sia minimamente di intralcio alla propria spensieratezza e serenità" 
(Dott. Pietro Grattagliano, psichiatra e psicoterapeuta, www.psichiatrianapoli.it).

Quando ho letto questa frase non ho potuto che pensare a noi modellisti, soprattutto in riferimento alla presunta "non volontà di crescere e diventare adulto". Forse perché da molti questa attività hobbistica viene ritenuta un "gioco da adulti", e di conseguenza chi la pratica resta in fondo un bambinone che ha semplicemente tecnologizzato un gioco adatto a bambini e ragazzi.

Ed è vero?

Sì e no. Occorre per prima cosa inquadrare il termine "gioco" (in questo caso l’aeromodellismo dinamico) e dunque il "giocattolo" (il modello). Senza dover scomodare citazioni colte, si può dire che gioco è "qualsiasi attività liberamente scelta a cui si dedichino, singolarmente o in gruppo, bambini o adulti senza altri fini immediati che la ricreazione e lo svago, sviluppando ed esercitando nello stesso tempo capacità fisiche, manuali e intellettive" (Cfr. Vocabolario Treccani).
Gioca allora il bambino, e con questo esercita una miriade di funzioni cognitive ed emozionali che saranno fondamentali per una corretta crescita. Gioca l’animale giovane, e con questo esplora l’ambiente e impara le tecniche di comunicazione e le strategie di vita tipiche della sua specie. Gioca l’adolescente, spesso con "giochi" adatti ad un/a ragazzo/a in crescita e dunque sottoposto ad un cambiamento radicale sia fisico che psichico. Gioca anche l’adulto. Sì. Però in questo caso il gioco è curiosamente standardizzato, quasi "anestetizzato" di quella parte libera e anarchica che è tipica del gioco fanciullesco. Si gioca allora a carte, a scacchi, a tennis, a giochi di ruolo, a scendere lungo i torrenti, a scalare le montagne in mountain bike ecc. Giochi insomma dove vige la regola comunemente condivisa, la tecnica, l’abilità fisica o mentale.

Eppure non ho mai sentito dire a nessuno: "Gioco all'aeromodellismo". Perché?

Da una parte, qualcuno risponderebbe che "No, non è un gioco. È una cosa molto seria". Ma questo, però, potrebbe valere per molte altre attività. Dall'altra, dire di "giocare all’aeromodellismo" significherebbe prestare il fianco a coloro che (a torto o ragione) ci considerano dei bambinoni cresciuti. Dei novelli Peter Pan dell’aria. Allora preferiamo dire "Pratico l’aeromodellismo" (per contro è raro sentir dire "Pratico il tennis"), oppure meglio ancora "Sono un pilota di aeromodelli". Che poi chi pilota si diverta un mondo e davvero giochi in campo, l’ho ribadito più volte nei miei post precedenti.

Dunque "giocare" può essere una cosa molto seria, oltre ovviamente ad essere una pulsione tipica di ogni essere vivente. O quasi. Quello che cambia è invece il giocattolo. Vedere un manager cinquantenne giocare con le macchinine nel suo ufficio, lascerebbe tanti un po’ perplessi. A meno che… con lui non ci sia il figlio, o comunque un soggetto giovane e pertanto autorizzato a giocare con le macchinine. Allora il manager non solo verrebbe scusato, ma anche apprezzato come padre o amico socievole e amante dei bambini.
Vedere lo stesso cinquantenne giocare a tennis, non farebbe una piega. Ma anche – perché no – giocare in un torneo di giochi di ruolo. Il vero problema sembra dunque essere l’oggetto del gioco e l’immagine mentale che esso occupa nel pensiero comune. Quanto più esso evoca un legame con l’infanzia, tanto meno è adatto all'adulto. La macchinina è perfetta per il bambino. La macchinina radiocomandata da 1500 euro… uhmmm in mano ad un adulto è un po’ come se fosse né carne né pesce. Va bene, sì però… L’aereo è grossomodo lo stesso. Certo evoca l’aeroplanino del bimbo, ed il modello radiocomandato e costoso… sì è vero, non è da bambini, però…

Cos'è allora quel però finale. In sostanza: che perplessità crea chi fa volare un radiomodello e pure si diverte? Sì, perché di perplessità ne crea comunque! Credo che la risposta vada trovata in quanto appena detto: aereo = gioco bambinesco; aeromodello = ibrido tra bambinesco e adulto; adulto che gioca con aeromodello = boh?

L’aeromodellista è in sostanza un Peter Pan a metà. Gioca – perché, fuori dai denti, di questo si tratta – con la passione di un bambino, però deve avere capacità, competenze e spesso soldi da adulto per poter praticare questo hobby-gioco. È un ibrido, come detto prima. Uno "strano animale" di mitologica memoria: corpo da adulto e testa da bambino. Eppure, fuori dal campo, può essere una persona seria, responsabile, efficace, pragmatica. Un adulto, insomma.
Sarà anche per questo che spesso ci si avvicina a questo hobby da adolescenti, se non proprio preadolescenti. Soprattutto se in famiglia o tra gli amici c’è già qualcuno che lo pratica. Poi, una volta passato qualche anno, è frequente che il giovane pilota smetta. Perda interesse. Salvo poi, magari, riprenderlo una volta divenuto un uomo di mezza età. È come se il ragazzo ad un certo punto "si vergognasse" di giocare con qualcosa che idealmente lo rimanda all'età della fanciullezza, epoca che nell'adolescenza si vuole abbandonare il più in fretta possibile per apparire e sentirsi adulti. Poi, una volta terminata questa fase conflittuale, si può tornare a giocare serenamente, senza avere il timore di un giudizio sociale e del gruppo di pari.

A questo proposito ricordo chiaramente la volta in cui, preadolescente, il primo giorno di vacanza al mare tirai fuori dal sacchetto le mie biglie per giocare sulla sabbia. Come avevo fatto negli ultimi 7,8 anni. Quella volta, però, qualcosa mi bloccò immediatamente. Provai un indistinto senso di vergogna. Ero già cresciuto, e in un certo senso temevo quello che gli altri avrebbero potuto dire di me. Fatto sta che non giocai più. Ora, invece, non mi farei alcuno scrupolo a disegnare piste sulla sabbia e far correre i vari (dell’epoca) Gimondi, Moser ecc.

In conclusione credo che la sindrome di Peter Pan non possa essere applicata tout court all'aeromodellista nell'atto di compiere il suo hobby. E certamente non in tutte le accezioni proposte dallo psichiatra napoletano citato. Vale a dire che può essere una persona perfettamente matura  e in grado "di assumersi ogni responsabilità", nonché capace "di impegnarsi seriamente in qualsiasi cosa". Che poi mantenga e alimenti una forte pulsione ludica, questo è indubbio. Ma la cosa bella è che il più delle volte non si pone il problema di difenderla. Gioca e basta. E con i pari condivide serenamente questa passione. Anzi, nel gruppo di modellisti trova comprensione (relativa ad esempio ai soldi che si possono arrivare a spendere) e complicità che talvolta non trova fuori di esso. Sarà anche per questo che tanti frequentano il campo come se fosse un bar di paese: cioè si fermano ore semplicemente a chiacchierare, senza alzare in volo alcunché.

Confesso tuttavia che un pensierino ce l’ho ancora. Non è che chi ci giudica inesorabilmente "bambinoni", in fondo in fondo non prova un po’ di invidia per chi dimostra (o lascia immaginare) di divertirsi un mondo? 

2 commenti:

  1. Molto bello per le sensazioni vere che descrivi!!!
    Dai 15 ai 19 anni ho fatto tanto modellismo!
    Abbandonato fino ai 74 anni,che peccato ritrovarsi ad imparare tutto così in ritardo però
    "con pazienza" miglioro tanto giorno per giorno!

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