Estate
2017. È il primo pomeriggio di un giorno infrasettimanale. Ormai so che anche
durante la settimana al campo c’è qualcuno. In giorni ormai canonici: perlopiù
pensionati o professionisti che decidono di prendersi il pomeriggio libero. Io
sono tra questi.
Le
batterie pullulano di energia già dalla sera precedente. I sedili della
macchina sono già ribaltati. Darko è
già imbragato come una fiera dentro lo scatolone adattato ad hoc per fungere da
contenitore per un trasporto sicuro. Lo stesso scatolone che un giorno, prima
che venisse pietosamente dipinto d’un bel blu cielo, suscitò la curiosità di un
amico del campo, che candidamente mi chiese: "Scusa Stefano, ma che cosa sono
le Nastrecce?". Era il nome di una
marca di merendine. Sì, lo so. Avrebbe fatto più figo se avessi trovato
imballaggi della Great Planes, della Hype, della Sebart (tutte marche
produttrici di aeromodelli, nda) ma
tant’è. Quella Nastreccia faceva il
caso mio. A costo zero.
Il caldo
toglie il fiato. Ma non importa. Così percorro le poche centinaia di metri di
strada sterrata che portano al campo, sollevando nuvole di polvere mentre
levita con l’afa anche quel misto di tensione, voglia di volare e di fare bene
che mi accompagna ormai dal primo giorno.
Parcheggio.
Il campo è deserto. Solo qualche piccione sudato s’attarda a cercare sparuti vermi
secchi tra l’erba color paglia. Io non mi preoccupo. So già che molti arrivano
non alle 14.00, come capita a me, ma saggiamente più tardi. Quando emerge
almeno l’illusione che il caldo possa mollare. Così apro il gabbiotto e tiro
fuori la manica a vento.
Che
soddisfazione! Il regolamento del campo prevede che tu possa avere la chiave di
questo scrigno - perso nel deserto della boscaglia brianzola - solo dopo aver
superato un esame interno che certifichi che tu sai volare. E che, per caso,
puoi anche venire al campo da solo. Io feci l’esame dopo più di due anni. Non
mi sentivo pronto, fino al giorno in cui mi decisi. Con successo. E tenere in
mano quella chiave fu per me come avere quella di un castello, o di un forziere
prezioso.
Faccio "l’alzabandiera" con la manica a vento e con soddisfazione noto che non c’è
alcuna bava di vento. Magnifico. Condizione ideale. Peccato che non si veda
ancora nessuno. Sì perché il regolamento non "proibisce tassativamente", diciamo
che "sconsiglia" di volare da soli. Un incidente può sempre capitare, e non ci
sarebbe nessuno pronto ad intervenire. Poi, diciamoci la verità, l’idea di
volare in assoluta solitudine l’ho sempre scartata. Troppa paura, anche se – a
ben vedere – in mezzo alla pista rimani sempre da solo, come ho anche scritto
nel mio blog Come un rigore nel cielo.
Così mi
accascio sulla seggiola di plastica, mentre gocce di sudore mi irritano gli
occhi.
Darko è
lì. Fermo, ma solo all'apparenza. Dentro di sé scalpita, e dalla naca (grossomodo
è il muso dell’aereo, nda) sembra
quasi dirmi: "Dai Stefano. Approfitta del fatto che non c’è vento. Portami
su!".
Lo
ignoro, per qualche istante. Intanto guardo l’ora. Sono già le 15.00 e nessuno
si vede. Uhmmm.
Tante
volte, nei mesi scorsi, mi è capitato di rinunciare a volare perché quel giorno
il campo era deserto. Così tornavo a casa,
col morale sotto ai piedi, e batterie da scaricare. Ma oggi…
Darko
diventa insistente. La manica a vento resta una matita bianca e rossa
perfettamente verticale. Zero vento. Anche la pista sembra chiamarmi come una
Sirena vegetale. "Vieni… vieni novello Ulisse…". Sono confuso. Ho la sensazione
che a chiamarmi sia la maga Circe e che debba pagare con un drammatico crash la mia superbia di sfidare le
colonne d’Ercole e volare in totale solitudine..
Intanto
inizia a farsi largo l’idea che di una giornata del genere vada necessariamente
sfruttata. Volare da soli…. Dio che
follia! "Pazza idea", l’avrebbe definita Patty Pravo. Eppure…
Guardo
Darko, la manica a vento, la pista, poi ancora Darko, le batterie, l’orologio,
il piccione che mi fissa da lontano con aria di sfida. Sudo. Colo. Mi asciugo.
Impreco. Guardo il cellulare: nessun messaggio di speranza sul gruppo WhatsApp
del campo. Riguardo la manica… beh… porca miseria il vento è a zero. Ulisse.
Circe. Crash. Polistirolo che si sbriciola. Patty Pravo…
Fanculo.
Ho il
cuore a mille. Apro il petto a Darko e ci infilo la batteria come se fossi
Barnard(*). Calzo in testa l’immancabile cappellino (per utilità ma anche
scaramanzia non ho mai volato senza) e guadagno il centro della pista.
Sono
deciso come Russell Crowe nel Gladiatore. Eppure mi sento come
un diabetico che entra in una pasticceria. So benissimo che "è sconveniente"
quello che sto facendo, e nella testa mi balenano scene orripilanti di pezzi di
polistirolo che sfavillano sull'erba, e già mi sembra di sentire quella vocina
stronzina: "Te l’avevo detto…". Tuttavia…
Le Sirene
hanno vinto. La manica ha vinto. Darko sorride, impavido. "Only the brave" mi ripeto. "Solo i coraggiosi". Così accendo il
motore e parto. Darko sussulta, rimbalza sui ruotini, mangia polvere e gloria.
Poi d’un tratto si stacca da terra e guadagna l’aria.
Sono fottuto. Penso.
Ormai è fatta. O cado oppure atterro come un pilota Top Gun. Ma il dado è
tratto.
Volo. Le
mani mi tremano. Il sudore mi riga la faccia. I piccioni se ne stanno lontano.
Immagino a guardare, e magari a prendermi in giro. Ma Darko è un grande. Sfila
liscio, disegna geometrie che quasi mi sembra che faccia tutto da solo. Intanto
il timer della radio incalza. Su un tempo massimo di sei minuti massimo di
permanenza in volo, siamo già a tre. E allora viro. "Faccio un loop?"(**) mi
chiedo. Sì. Ormai è fatta. E se dovessi pentirmi del mio ardore, almeno che ne
sia valsa la pena.
Darko mi
sorprende. Da cavallo imbizzarrito come mi sembrava solo pochi mesi fa, oggi
sembra un placido animale da tiro. Intanto la radio corre. Quattro minuti.
Entro due minuti al massimo devo atterrare.
Finora è
andato tutto bene e davvero non so che darei perché una mano magica mi
prendesse il modello in volo e lo posasse quieto accanto a me, senza dover
atterrare. Sì perché questa è la manovra che proprio con Darko mi ha causato dei
crash. "Only the brave", Stefano.
Cinque
minuti, È ora. Applico tutte le procedure per l’atterraggio. Rallento, viro
ampiamente e…
"Atterro!"" grido a gran voce. So benissimo che non c’è nessuno al campo, e quindi questo
"annuncio di manovra" che normalmente è bene fare per avvertire gli altri
piloti, è pressoché inutile. Forse finanche grottesco. Ma mi aiuta.
Psicologicamente.
Scendo.
Chiudo progressivamente il gas. Sudo. Anzi, colo.
Darko
veleggia come un gabbiano. Perde quota. Con calma. Persino armonia.
Intanto i
piccioni hanno tutti smesso di volare. Lo so. Stanno guardando con il fiato in
gola.
Tre
metri, due metri. "Togli gas!". Un metro…. Cabra. Cabra….
Darko
tocca terra. Corre sulla pista e si ferma. Indenne. Orgoglioso. Sembra che
dica: "Vedi, te l’avevo detto!".
Mi guardo
attorno. Silenzio totale. Non c’è anima viva. Solo i piccioni riprendono a
volare.
Guadagno il
bordo della pista, con Darko e radio in
mano. E non mi sembra vero. Mentre mi accascio esausto ma profondamente
orgoglioso sulla sedia, penso: "Ho sfidato la paura, le Sirene, Patty Pravo, i
piccioni, il caldo, la sfiga, la sorte, l’erba secca… e ho vinto". Ho volato da
solo.
Stasera,
per festeggiare, una birretta a cena e tante cose da raccontare. Magari, con Lucio
Battisti, canticchiando mentalmente: "Tu chiamale se vuoi… soddisfazioni".
(*)
Christiaan Neethling Barnard (1922-2001) è stato un chirurgo sudafricano,
assurto a fama mondiale per aver praticato il primo trapianto di cuore della
storia della medicina.
(**) Detto
impropriamente "giro della morte"
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