domenica 24 settembre 2017

Sono tornato a volare dopo 55 anni

«Dai 15 ai 19 anni ho fatto tanto modellismo! Abbandonato fino ai 74 anni, che peccato ritrovarsi ad imparare tutto così in ritardo però "con pazienza" miglioro tanto giorno per giorno!».

Scrive così Alberto, a commento di un mio post pubblicato nella versione blog di Voglia di volo. E rappresenta un percorso pressoché esemplare. Da ragazzo si è avvicinato con passione a questo hobby. Poi, per motivi a me ignoti ma che in ogni caso poco contano, ha smesso. Salvo riprendere dopo ben 55 anni, in un momento della vita dove il più delle volte si spendono le giornate tra nipotini, gite organizzate, giochi di carte al bar, oppure la solitudine di una casa svuotata e ricca solo di ricordi e qualche rimpianto.

Riesco a immaginare il signor Alberto negli anni ’60, con quei modelli che molti di noi ora riescono a vedere solo in vecchi filmati su YouTube, o in foto che hanno il sapore e il fascino dei pionieri. E lo immagino ora, posto di fronte a modelli che allora sarebbero apparsi fantascientifici e una tecnologia che – a confronto – farebbe apparire quella come un’epoca del telegrafo a confronto di quella dei satelliti spaziali. E mi fa una profonda tenerezza (oltre che innescare un profondo senso di stima) quel suo "con pazienza miglioro tanto giorno per giorno". Perché è segno di umiltà, ma anche determinazione e passione, che sono tre componenti fondamentali per praticare con soddisfazione l’aeromodellismo.

C’è tuttavia un aspetto di questa – ma anche altre vicende simili – che mi affascina: perché riprendere dopo oltre cinquant'anni?

La risposta più semplice sarebbe questa: perché ora, probabilmente in pensione, la persona in oggetto ha tempo da dedicare a un hobby e ha deciso di rimettersi in gioco per mantenere vivace il suo stile di vita oltre che la sua mente. Sì, certo. Indubbiamente la conclusione della vita lavorativa e quindi degli impegni, della fatica e del tempo che brucia con sé, determina uno spazio-tempo non solo liberato, ma anche da colmare in qualche modo. Eppure…
Il signor Alberto, come tanti altri, avrebbe potuto riempire il suo spazio-tempo in altro modo. E sicuramente avrebbe faticato, ma anche speso di meno. Invece no. Ha scelto diversamente. C’è quindi dell’altro, che va oltre una risposta semplice e indubbiamente logica.

Immagino allora… la casa del signor Alberto. Quella radio che un tempo "mi costò un occhio della testa", quel modello costruito con le sue mani, magari in cantina, di sera, e quei voli fatti in campi improvvisati, con l’erba alta, e i contadini che imprecavano perché questi "giovani sciagurati" calpestavano la soia appena piantata, e con i loro giocattoli disturbavano gli animali che alzavano la testa incuriositi nelle stalle vicine.

Immagino i suoi 19 anni. Il lavoro che reclama sempre più tempo, la casa da portare avanti con i soldi guadagnati perché "papà non ce la fa più e c’è la luce da pagare, oltre al conto dal droghiere che cresce come i figli". E quel modello viene lasciato in cantina, coperto da un telo come se fosse una statua preziosa, e quella radio depositata nel cassetto dell’armadio, anch'essa protetta con cura e… guai a chi la tocca. Con quello che è costata! "Viene direttamente dall'America…".

Immagino questi 55 anni. Lo sguardo che ogni tanto si posa sul modello, e l’emorragia di ricordi che fa scaturire. La mano che tocca l’elica, sfiora la naca, come la carezza ad una persona cara che sta invecchiando come il pilota. E quel tempo che non c’è mai. Quel maledetto lavoro che ti consuma l’anima e piaga le mani, quel conto in Posta che sembra calare ogni mese, e la vita che… "è tutto raddoppiato come spese" e si fa fatica ad arrivare a fine mese.

Immagino nel suo cuore, nella sua mente quel batterio sano dell’aeromodellismo che è cresciuto, e si è insediato stabilmente nei tessuti cardiaci e della fantasia. Un ospite per certi versi indesiderato ("non ho più tempo e soldi per riprendere") ma allo stesso tempo vivo. Perché finché c’è, fino a quando insinua le sue dolci tossine nel sangue, una parte di noi resta viva: quella più ludica, passionale, fantasiosa, creativa.

Immagino infine i suoi 74 anni. La sensazione che ormai il proprio "dovere" è stato svolto fino in fondo e che rimane ancora del tempo per sé. Per non ammuffire in un bar. Per non passare il tempo a piangere chi non c’è più o a pensare ai figli che "ora sono grandi e lavorano lontano". Ma immagino anche l’emozione e la soddisfazione nel togliere la coperta dal modello. La gioia nel riaccendere la radio insieme alla consapevolezza che tutto è passato. E che c’è un mondo nuovo da scoprire. Nuove radio, nuova tecnologia, nuovi modelli. Che strano e che fatica tornare ad essere alunni a 74 anni. Però la passione è la stessa. E quel batterio, per fortuna, non ha mai smesso di crescere e nutrirsi di sogni.

È vero, è un «peccato ritrovarsi ad imparare tutto così in ritardo, però "con pazienza" miglioro tanto giorno per giorno!».

Buoni voli signor Alberto. Che il cielo ti sia sempre lieve e il sorriso resti sempre nel tuo cuore. 

lunedì 18 settembre 2017

La vocina

Diciamocela tutta: volare è un rischio. In primis di cadere e dunque danneggiare se non proprio distruggere il modello. Certo, lo è al pari di qualsiasi altra attività come camminare per strada, guidare l’automobile o cambiare una lampadina in casa. Tuttavia se camminare ha un rischio basso (a meno che abbia la sfortuna di essere travolto da un veicolo oppure mi cada qualcosa sulla testa), e guidare l’auto un rischio medio (sempre che non lo faccia veloce e rispetti il codice della strada), volare con un aeromodello ha un rischio medio-alto. Non per nulla ho sempre detto che la caduta (il crash) è pressoché inevitabile nella storia di ciascuno di noi.
Qui entra in gioco poi un "gioco" quasi perverso di probabilità: se è vero che più impari e meno errori banali puoi commettere, dall'altra è pur vero che per imparare devi volare tanto e che aumentando il numero di voli si innalza anche la possibilità di eventuali crash. Che fare dunque? Molti (io stesso) direbbero: mettilo in conto, prendi il tuo modello e vai, facendo i passi giusti e senza strafare. Altri non riuscirebbero invece a sopportare nemmeno il rischio di un fallimento, per cui dopo la prima caduta abbandonano l’hobby frastornati e delusi.

C’è però un piccolo campanello d’allarme che – gestito nella giusta misura – può aiutare: è quella che io chiamo vocina  e che più comunemente si potrebbe definire sesto senso.
La vocina è quella sensazione che parte da dentro e ti batte sulla spalla dicendoti: "No, oggi è meglio che non decolli". Che poi venga o meno ascoltata, dipende da tanti fattori, tra cui il più importante è la sua stessa natura. Ovvero: devo domandarmi se quel “consiglio” nasce effettivamente da un sesto senso, oppure è semplicemente figlio della paura. Un figlio che si traveste maliziosamente da saggezza, ma che di fatto è una semplice fifa che puoi ignorare tranquillamente; anzi devi ignorare se vuoi continuare a volare.

Distinguerne la natura è impresa assolutamente difficile, e comporta una conoscenza di se stessi davvero profonda. Mille volte io, andando al campo, ho avuto sensazioni catastrofiche: mi vedevo già tornare a casa con pezzi di Darko mogiamente deposti nel baule, ed invece tornavo soddisfatto e persino fiero di aver fatto un paio di voli pressoché perfetti. Invece altre volte ho deciso di dare ascolto a quella vocina e sono rimasto a terra, soprattutto in presenza di vento forte oppure con direzione non favorevole o addirittura contraria a quella utile ad esempio per il decollo e l’atterraggio. Certo avevo paura di volare in quelle condizioni, non me la sentivo. Allora - ignorando i colleghi che mi spronavano a "fregarmene" e ad andare lo stesso – restavo fermo a guardare fisso la manica a vento, salvo poi rimettere tutto in macchina affranto, ma anche sicuro che almeno quel giorno il modello sarebbe tornato a casa sano e salvo.

Come sarebbe andata se avessi tentato lo stesso? Forse bene. Chi lo sa.

Ecco perché è tanto difficile valutare la vocina. Si deve mediare continuamente tra lo sforzo di alleviare le paure iniziali e andare avanti, ed invece essere onesti con se stessi e fare ciò che ci si sente. Posto ovviamente che pilotare richiede una dose tale di concentrazione che farlo quando sei molto stanco, stressato o magari distratto da qualche problema personale, risulta sconveniente.

Andare avanti significa dunque imparare a gestire la paura (io credo che anche nel pilota più bravo ci sia sempre anche un solo grammo di timore), conoscere le proprie potenzialità e comunque testarle, fino ad arrivare al punto in cui ci si sente appagati. Non è infatti detto che tutti debbano diventare piloti di 3D (acrobazia estrema nell’aria, nda) e se io voglio continuare a fare giri in ovale sulla pista e basta, ben venga. Però diventa ugualmente stimolante porre l’asticella un pochino più in alto, soprattutto se ben motivati.

Un esempio pratico: da tempo sto desiderando un nuovo modello. Pochi giorni fa, al campo, mi è stato detto che "sì, molto bello, ma anche molto veloce nell'atterraggio. Quindi occhio!". Il primo pensiero è stato: "Oh miseria… sarò capace?". Il secondo invece: "Beh… sarà una buona scuola!". Anche se sono certo che sentirò mille volte una vocina che dirà: "Guarda quant’è bello… perché rischiare di farlo decollare?".

mercoledì 13 settembre 2017

La “livella” della livrea

Credo che molti lettori conoscano la poesia ‘A livella, scritta nel 1964 da Antonio De Curtis, in arte Totò (nella foto). Per chi non la conoscesse, la riassumo brevemente: l’autore immagina di recarsi in un cimitero il 2 di novembre per fare visita alle tomba di una parente. Nel girovagare vede, tra le altre, la grande tomba di un rinomato marchese con a fianco quella decisamente più malconcia e povera di un netturbino.
Giunta la sera, il visitatore resta chiuso all'interno del cimitero e con suo grande stupore assiste alle proteste dell’anima del marchese che non sopporta di essere stato sepolto vicino ad un umile netturbino. Quest’ultimo, con saggezza, gli risponde  di stare calmo e di lasciar perdere, perché ormai entrambi sono cadaveri e la morte rappresenta una sorta di livella(*) che appiana ogni differenza sociale.

Faccio questa introduzione perché anche il campo volo, a mio parere, rappresenta una sorta di livella. Ovvero: qui le differenze sociali, economiche e professionali tra coloro che lo frequentano (unicamente relative al mondo del lavoro) non solo non hanno senso, ma perdono i loro contorni fino a sfumare quasi del tutto. E attenzione a non confondere lo status economico-sociale con l’eventuale atteggiamento. L’essere un operaio oppure un manager, un camionista piuttosto che un rinomato medico qui non ha alcun peso; diverso è invece che il singolo assuma atteggiamenti spocchiosi o di superiorità, ma questo può essere anche slegato dal prestigio sociale che più o meno può vantare.
Personalmente ignoro buona parte delle professioni dei miei colleghi. So tuttavia che in generale nel nostro gruppo abbiamo disoccupati, operai, piccoli imprenditori, dentisti, ex bancari ecc. Quando però ci si trova sullo spiazzo erboso della pista, tra rumore di eliche che girano e odore di glow nell’aria, tutto si appiattisce. Si uniforma. Ed è per questo che parlo di livella della livrea (quest’ultima può essere definita la colorazione e la grafica esteriore di un modello, nda).

Giustamente qualcuno potrebbe obiettare che ciò accade perché ogni singola professionalità non ha senso nell'atto di far volare un modello. Ed è vero. Che alla radio ci sia un giornalista piuttosto che un falegname, l’importante è che piloti bene e la differenza la fa semmai l’esperienza e la capacità di volo. Però, come in molti altri campi, una crepa all'interno di questa uniformità potrebbe essere rappresentata proprio dal modello: più ho disponibilità economica, più bello, tecnologico e costoso potrebbe essere l’aereo che guido.

Uso il condizionale perché non credo che le cose vadano in realtà così. Pur senza voler dipingere un mondo utopistico dove regnano incontrastati l’amore e la concordia, credo davvero che sentimenti come l’invidia  restino perlopiù fuori dai campi. Vedere un collega con un modello eccezionale in termini di bellezza e anche valore economico, davvero non genera praticamente mai sentimenti negativi oppure sprezzanti nei confronti della persona. Semmai di ammirazione e, sì, anche un po’ di preoccupazione per un eventuale crash. Perché – com’è logico – un conto è distruggere un aereo da 250 euro, un conto è farlo con uno da 1500.
In sostanza, il campo volo non è certo il luogo più adatto per sfoggiare le icone del proprio conto in banca e del ruolo sociale ricoperto. Il fatto che si parcheggi un grosso SUV ed estragga da esso una riproduzione fenomenale, di fatto ha poco peso se poi la persona è socievole, alla mano, rispettosa degli altri e collaborativa con il gruppo. Se invece assume atteggiamenti di superiorità, è ovvio che scatti la frase: “Ma chi si crede di essere?”. Ma questo vale anche se raggiungesse il campo con una Panda e volasse con l’equivalente di una scatola di biscotti. Torniamo dunque alla affermazione fatta in precedenza: non è lo status socio-economico a fare la differenza; semmai è l’atteggiamento.

Il perché tutto questo accada è semplice: tutti noi modellisti convergiamo verso un’unica passione. La condividiamo e spesso troviamo nel nostro gruppo di pari non solo comprensione ma anche una sorta di “rifugio”. Ed è proprio il condividere che lega e livella.
Personalmente ho avuto modo più volte di esprimere ai miei colleghi del campo quello che ritengo sia il complimento più bello che si possa fare ad un gruppo: "Mi fate sentire a casa". Nel senso che mi trovo a mio agio, posso essere me stesso, e spesso il campo è stato ed è ancora una valvola di sfogo dove poter sciogliere nell'aria preoccupazioni, delusioni, ma anche gioie.
E non potrebbe mai essere così se percepissi arroganza, presunzione, diffidenza, distacco ecc., tutti atteggiamenti che  bene o male potrebbe assumere chi si sente superiore.

Modificando solo in parte i versi del grande Totò, allora direi a chi comunque volesse atteggiarsi così: "(…) Perciò, stamme a ssenti... nun fa' 'o restivo,/ suppuorteme vicino - che te 'mporta?/ Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'e vive:/ nuje simmo serie... appartenimmo â campo!"



(*) La livella è uno strumento usato in edilizia per stabilire l'orizzontalità di un piano 

venerdì 8 settembre 2017

Un aereo nel cassetto

Appartengo a una generazione in cui i sogni, o più semplicemente i desideri, non vengono dati per scontati. Per età anagrafica, indole e formazione educativa e familiare. Così nel tempo ho sviluppato il fascino dell'attesa, del coltivare un desiderio, ma anche di mantenerlo più a lungo possibile una volta ottenuto. "Siamo tra coloro che si sforzano di aggiustare piuttosto che buttare", lessi una volta su Facebook. Ed è vero. Quante volte ho prima chiesto aiuto a mio padre per aggiustare un giocattolo e – una volta cresciuto – mi sono intrufolato nel suo piccolo laboratorio casalingo per cercare di rimediare da solo, spesso facendo incetta di colla, nastro adesivo, spago, legni e altro.
Sarà anche per questo che concetti come usa e getta faticano ad entrarmi in testa; sarà per questo che ad esempio mi suona strano che oggi costa di meno ricomprare ad esempio una stampante da computer piuttosto che cercare di ripararla; sarà infine per questo che ogni mio oggetto particolarmente caro, come ad esempio un modello, viene trattato con cura e una sua rottura è un piccolo dramma a cui porre subito rimedio. Per ristabilire l’equilibrio della normalità, piuttosto che per non perdere un week-end di volo.  
Questa "palestra" di vita che considero assolutamente salutare – pur senza fare una stucchevole e patetica dietrologia – la vivo costantemente. Soprattutto quando insorge il desiderio di acquistare un qualcosa che mi piace particolarmente. E, preciso, si tratta in genere di spese che non superano quelle che magari sono costretto a fare, più volte l'anno ad esempio per pagare una rata di tasse o i servizi di un fornitore. Spese, queste ultime, che vengono fatte con abulica rassegnazione, e il cui peso psicologico viene sostenuto come un obbligo irrinunciabile.

L’idea di acquistare un nuovo aeromodello è un percorso esemplare nell'ottica di questo discorso. Ad un certo punto, soprattutto quando si innesca un periodo di vita complesso e povero di soddisfazioni, inizio a spulciare nei siti dedicati alla ricerca di quello che potrebbe essere il mio nuovo modello. Si tratta perlopiù di una ricerca che – paragonandola al rapporto amoroso – definirei platonica. Nel senso che magari so benissimo che quella spesa (pur non esagerata) sarebbe più opportuno destinarla ad altri obblighi di dazio, e dunque la mia resta all'inizio una sorta di gioco intellettuale, giusto per solleticare la fantasia e le papille del sogno.
La prima griglia è rappresentata dal prezzo. Ovviamente escludo modelli che superino le poche centinaia di euro. Meglio se restano all'interno di un budget appena decente. Così facendo escludo diciamo il 50% del mercato. La seconda griglia è invece rappresentata dalle caratteristiche tecniche. Escludo allora modelli a turbina (stupendi ma sinceramente ancora inadatti a me). Quelli con velocità troppo spinte, prestazioni da genio della radio ecc. Quello che resta è uno sparuto gruppo di modelli tra cui scegliere quello che mi fa breccia nel cuore.
Sì. Il fatto che sia ad ala alta, media o bassa, che abbia bisogno di batterie che non ho (e dunque dovrei comprare nuove) o che richieda più canali rispetto a quelli a disposizione sulla mia radio, sono tutte cose che passano in secondo piano. Prima devo innamorarmi. A primo colpo. Poi valuto se l’oggetto del mio amore è raggiungibile o meno.
È successo con Darko. Dopo il primo aereo-scuola, mi sentivo pronto per fare un passo in avanti. Guardai così nella categoria modelli acrobatici e soprattutto nel livello di difficoltà: intermedio. Ah… che soddisfazione abbandonare il gruppo dei principianti e passare tra i "grandi" dell’intermedio. E quale gioia sarà sentirsi parte del gruppo degli esperti!
Avevo a disposizione diciamo una decina di modelli. Però nessuno mi folgorava. Fino a che lo vidi: ala media, livrea color giallo-nero, prestazioni da pilota intermedio. Era fatta! Era lui. Bellissimo.
Non persi tempo: inviai al mio tutor del campo il link della pagina Internet dov'erano tutte le caratteristiche del modello, chiedendo semplicemente: "Credi che possa essere adatto a me?". Rispose: "Sì" e per me era come il padre che acconsente a concedere la mano della figlia per le nozze. Lo comprai due giorni dopo.

Ricordo l’attesa. Veniva direttamente dalla Cina, per cui aspettai circa 3 settimane. Ma era un’attesa ricca di pathos. Non avevo alcuna fretta di scartarlo e montarlo per farlo volare subito. L’importante era averlo. Così quando finalmente arrivò, aprii la confezione solo per vederlo dal vero e controllare che fosse integro. Poi nei giorni successivi, con calma, lo montai.

Un qualcosa di simile sta accadendo ora. Dopo due anni dall'arrivo di Darko, il desiderio di avere un altro modello è risorto prepotente e rappresenta un balsamo efficace. Stessa procedura. Stesse griglie. Stessa attesa del colpo di fulmine. Questa volta, però è stata diversa. L'ho visto, il nuovo candidato, ma non è stato amore immediato. Piuttosto è come se avessi scorto una bella donna per strada e avessi pensato: "Però… che bella figliola!". Nei giorni successivi, però, a furia di rivederlo mi sono detto: è lui! Ed è bellissimo: un Pilatus PC-21 rosso fiammante, dalle linee aggressive e le prestazioni adatte alla mia esperienza.

Credo che sia superfluo dire che il mio cellulare si è riempito di sue foto. Ogni tanto le apro e me le guardo, come se fosse un amore in carne ed ossa. E attendo. Tra non molto sarà Natale e quello è il momento giusto per prenderlo. Pochi mesi che non generano alcuna ansia d'attesa, semmai la dolcezza del coccolare l'idea, dello studiarne le caratteristiche, del godere vederlo in volo su YouTube. Tutte cose che solo in parte servono per fare un acquisto ragionato. Perlopiù servono per nutrire il cuore e dissetare le papille del sogno.

Così facendo, ogni tanto penso di esagerare. Però, al campo, vedo spesso miei colleghi tirare fuori il cellulare e avviare un filmato dal cui suono capisco subito che si tratta di un aeromodello in volo. E bastano pochi istanti per sentirli dire che "Sì… è il modello che ho appena ordinato!", con quella luce negli occhi che conosco bene e mi fa tenerezza. Dunque non sono il solo che nella Galleria del suo smartphone ha forse più foto di aerei che dei suoi familiari, senza ovviamente nulla togliere a questi ultimi.

Il sogno è dunque tornato. Lo coltivo, come una pianticella. Lo bagno con gli occhi e le mani che cercano nuove informazioni, nuove foto, nuovi video. Ma questo non vuol dire che Darko perda smalto. Se mi è concesso un paragone che farà arricciare il naso a qualcuno, è come se dopo il primo figlio ne desiderassi un altro. Non è perché del primo ti sei stufato, oppure ti ha deluso e cerchi una sorta di riscatto. È un qualcosa che rientra nella sfera dell’amore, del desiderio…
Ogni modello avrà il suo carattere, la sua anima come ho già scritto altre volte. Ognuno diverso. E avrò la possibilità – a seconda dello stato d'animo – di scegliere l’uno o l’altro, come se fossero dei bei vestiti da cerimonia. 

L’attesa è iniziata. Il sogno ha ora un nome e un volto. E tanto basta, per ora, per provare scariche di soddisfazione. Sì… appartengo ad un’altra generazione. Probabilmente, poco tempo fa, avrei pestato i piedi (o i tasti del Bancomat) per averlo subito e farlo volare nel week-end. Invece… saranno gli anni, saranno i rimi, l’indole, l’esperienza, la maturità, le difficoltà… eppure oggi sono anche contento di aspettare. Arriverà, lo so. Tra un po’. E la stessa frase Arriverà tra un po’ che da piccolo mi sfibrava tanto era la voglia di avere subito l’oggetto del desiderio, ora mi conforta.

Sì… sono proprio di un’altra generazione… o forse solo un po’ più cresciuto. 

giovedì 7 settembre 2017

Il rito

Da quanto scritto finora dovrebbe risultare chiaro che l’approccio al volo aeromodellistico può avere sfaccettature diverse. C’è chi vola in maniera assolutamente rilassata; chi è alle prime armi e dunque è teso come una corda di violino; chi cerca la perfezione nelle sue manovre acrobatiche e dunque ha una tensione diciamo "costruttiva" e non "limitante", e così via. Poi c’è chi, come me (non ho problemi ad ammetterlo) pur volando da qualche anno conserva per indole una certa dose di tensione che poi si scarica minuto dopo minuto, salvo poi sciogliersi in una scarica di serotonina che mi allarga il sorriso e la soddisfazione. Il divertimento c’è, ci mancherebbe altro, ma diciamo che diventa non una componente tout court, piuttosto una conquista successiva all'avere fatto tutte le manovre a dovere e avere riportato il modello a terra senza danni.

È dunque comprensibile come la preparazione al volo diventi una sorta di rito, dove l’abitudine e la sequenza delle cose da fare in qualche passaggio sfocia in una sorta di scaramanzia annacquata tuttavia da considerazioni molto pragmatiche. In sostanza: non ci credo, però…  È quello che definirei il rito, anche se – a dire il vero – la sequenza delle azioni non è così rigida come si potrebbe pensare.
Soprattutto a chi non conosce questa pratica, ricordo che tra l’insorgere del desiderio di volare e il decollo vero e proprio, passa un discreto periodo di tempo. Vediamo allora una tipica sequenza dettagliata, con relative criticità.

Fase 1: Decisione – Ho deciso che andrò al campo. Per prima cosa devo far combaciare il mio momento libero con la presenza di altri piloti. A parte il week-end, dove sono sicuro di trovare qualcuno, durante la settimana devo sapere se sarò solo oppure no. Nel primo caso, il volo sarà sconsigliato, perché non ci sarebbe nessuno ad aiutarmi in caso anche di un banale incidente. Nel secondo… dipende. Nel mio caso so ad esempio che quasi sempre trovo qualcuno, con due o tre giorni più o meno "canonici".

Fase 2: Il meteo – Scelto il giorno, si passa al controllo del meteo: pioverà? Ci sarà nebbia? O anche: ci sarà troppo vento? In questo caso le App meteo per il cellulare sono utilissime. Se non fosse che spesso non tutte si trovano d’accordo. È probabile che ad esempio tutte mi dicano che c’è sole. Ok. Ma il vento? Qui spesso i dati non combaciano. Per una stessa ora di uno stesso giorno, qualcuna mi può segnare 5 km/h (e va bene), un’altra 12 km/h e non va bene, almeno per me. Soluzione? Io ho sul cellulare tre App meteo. Se sono in disaccordo tra loro, faccio una media e decido!

Fase 3: Carica batterie – Per chi, come me, vola con un modello elettrico, il tempo di carica delle batterie non è da sottovalutare. Se pensiamo che per una carica "dolce" e quindi tale da non stressare le celle ai polimeri di Litio occorrono circa due ore, se noi pensiamo di fare almeno tre voli, dobbiamo mettere in conto circa sei ore solo di carica. Per questo la fase 3 solitamente viene effettuata il giorno precedente.

Fino qui c’è la normale sequenza che la maggior parte dei modellisti segue. Poi inizia la personalizzazione. Io ad esempio scelgo con cura come vestirmi. Non che mi aspetti una sfilata…. ci mancherebbe… però ad esempio ci sono magliette che mi sono molto care e che magari desidero indossare quel giorno. Oppure due o tre in particolare, che uso solitamente nelle giornate più impegnative: il primo volo dopo un crash, un collaudo, l’annuale gara interna al club.

Si arriva così al campo. Io ad esempio avrei un paio di strade per arrivarci. Ma… ed è qui che spunta la coda della scaramanzia, faccio sempre la solita. Da quattro anni a questa parte. Così come indosso sempre un cappellino da baseball (anzi, "il" cappellino, personalizzato con motivi aeronautici), fondamentale d’estate, utile d’inverno e… presente comunque in ogni stagione.
Sia chiaro: non è che se per caso dimentico il cappellino (cosa peraltro rara) o cambio strada, decido di non volare. No! Però, diciamo che l’abitudine è questa. E preferisco non cambiarla.

Una volta pronto tutto – ovvero aereo scaricato dalla macchina con cassetta degli attrezzi e bottiglietta d’acqua – inizia la fase pre-volo: ambientazione, rilassamento, concentrazione, occhio puntato sulla manica a vento per seguirne ogni sviluppo di direzione e intensità delle correnti d’aria ecc. Una volta che è tutto ok, seguono i controlli pre-volo, l’arrivo sulla pista e il decollo.

Ho già fatto cenno in altri post a questi secondi in cui, modello in mano e radio nell’altra, guadagni il centro della pista. È solo una manciata di tempo, dove tuttavia la concentrazione si carica a mille, e ogni fibra del corpo diventa pronta a intervenire. Eppure c’è anche spazio per il piacere, per sentirsi in qualche istante tutt’uno con l’aria che ti accarezza il viso e gli inquilini del cielo con cui spesso ti trovi a volare. E vedere il tuo modello magari accompagnato da un piccolo stormo di piccioni o rondini… beh… è una sensazione curiosamente bella.

Pochi secondi in cui si concentrano ore di preparazione. Pochi passi che comunque anche se ci fossero venti colleghi al campo, fai da solo. Tu, il tuo modello e l’aria. Ormai ci siamo. Tutto è a posto. "Houston… qui pista di decollo. Pronti per il lancio".

lunedì 4 settembre 2017

Volare? Fa figo… ma non sempre

C’è un film che, almeno per molti miei coetanei sulla cinquantina, ha fatto in molti sensi storia. È Top Gun (regia di Tony Scott, Paramount Pictures, Usa 1986), dove un giovanissimo e fighissimo Tom Cruise interpreta il tenente Pete "Maverick" Mitchell, aviatore della marina militare americana. Storia perché se qualcuno di noi avesse avuto anche solo qualche batterio benigno della passione aeronautica, grazie a Tom e alle evoluzioni del suo F-14 avrebbe inesorabilmente contratto una “malattia” devastante. Ma anche perché ha insegnato a noi che non abbiamo vissuto i retroscena della guerra, che comunque fare il pilota di aerei fa molto figo. Certo, sicuramente avevamo un’idea in tal senso.  Ma vedere Tom fare breccia nel cuore dell'astrofisica Charlotte "Charlie" Blackwood (interpretata da Kelly Ann McGillis) come un coltello caldo nel burro… beh… era una lezione di vita.
Purtroppo, però, anche Top Gun, come del resto molti altri film, ha creato dei disastri. Sinceramente non so quanti, ormai colpiti da un’epidemia d’aeronautica, hanno voluto intraprendere almeno una carriera da pilota civile. Ma credo tanti, e certamente non solo per “lumare le pupe”, come diceva Snoopy. E dietro c’era sempre il sorrisetto stronzino di Tom, i suoi Ray-Ban da fighetto, il giubbotto di pelle che certamente ha fatto la fortuna di molti venditori anche qui in Italia. Salvo il fatto che occhialetti e giubbotto non necessariamente rendono un brutto anatroccolo un figaccione. Però diciamo aiutano. Perché un conto è dire alla ragazza di turno: “Sali che ci facciamo un giro nella mia autovettura” (Eh che? Siamo mica nel primo dopoguerra!). Un conto è dire: “Vuoi vedere – che so – Venezia dall’alto del mio Piper?”.

Come ho detto anche in altri post, molti di coloro che per vari motivi non hanno mai potuto o voluto diventare “veri” piloti civili o militari, hanno comunque compensato la loro passione dedicandosi all’aeromodellismo. E spesso portandosi dietro tutta quella coreografia fatta di cappellini e maglie a tema che manifestano anche all’esterno l’oggetto del loro interesse (cfr. i post E tu che pilota sei?). Magari pensando inconsciamente che la figaggine derivante dall’essere dei novelli Maverick potesse trasferirsi (in scala, ovvio, come i nostri modelli) anche sulla pista del campo volo.

Purtroppo però non è così. I figli ideali di Tom, i novelli piloti mantengono comunque un certo fascino, un po’ come i piloti di Formula 1, di Moto GP ecc. I loro emuli in scala no. Come già detto in Bulli, pupe e bulloni già i nostri campi sono assolutamente carenti di donne (a meno che non siano fidanzate svogliate o mamme indaffarate a gestire i piccoli, che accompagnano saltuariamente i nostri piloti). Inoltre non fa certo figo agli occhi di una pupa sgasare con il modello a bordo campo per fare prove motore; e anche una volta in volo, dopo qualche acrobazia in cielo, scema velocemente l’interesse per chi non è “malato” come noi.

Dunque temo purtroppo che l’aeromodellismo non sia la strada giusta ad esempio per il giovane tutto Red Bull e ormoni, ma nemmeno per il giovane-maturo (stile Uomini e Donne di Maria De Filippi) che – uscito da una commediola italiana anni ’80 – voglia fare bella mostra di sé tra glow(*) e riproduzioni.
Il campo volo non ha atmosfere da base militare stile Tom Cruise; non ha ambientazioni da night né panorami mozzafiato (perlopiù sono zone d’erba perse tra i campi coltivati o zone boschive); non ha profumi inebrianti: solo quelli acri della benzina e dei fumi di scarico dei motori; non ha nemmeno l’armonia dei suoni della natura: solo lo sgasare delle prove motore e il ronzio delle eliche che tagliano l’aria. Ma forse è anche per questo che questo hobby ci piace tanto!

(*) Carburante per motori a scoppio


sabato 2 settembre 2017

La pazienza è la virtù dei… piloti

A ben guardare il percorso che ogni aeromodellista compie nell'avvicinarsi e nel coltivare questo hobby, dovrebbe apparire chiaro come una costante che si ripresenta, sia da neofiti che da esperti, è la pazienza. E di conseguenza l’attesa.

Sì, l'aeromodellismo può diventare una buona palestra per rafforzare la nostra capacità di attendere con pazienza. Fin dall'inizio, quando si deve scegliere il primo modello che fungerà da cavia dei nostri inevitabili errori.
Già in altre occasioni ho scritto che lasciarsi prendere dall'entusiasmo e puntare subito su aerei bellissimi, magari riproduzioni di velivoli della seconda Guerra mondiale, rappresenta un errore grave. In genere sono infatti troppo difficili da guidare per mano di una mano inesperta, e la quasi certa caduta con rottura di un aereo che può costare diverse centinaia di euro, rappresenta spesse volte il motivo per cui si abbandona subito questa attività. Se poi parliamo di elicotteri, il rischio di ferite anche gravi a chi pilota (e non solo) è dietro l’angolo, e dunque il discorso si complica ulteriormente.
Attendere in questo caso significa allora cercare, chiedere consiglio e valutare con onestà il modello che può essere più adatto a noi. E non importa se ci sentiamo già l’equivalente di Valentino Rossi per la moto. Si deve iniziare dalla bicicletta. Anche se l’attesa in questo caso diventa spesso smania. La volontà di avere subito in mano il modello e alzarlo in volo, è certamente forte e corrosiva. Ma allo stesso modo può essere deleteria.

Un secondo momento in cui la nostra pazienza viene sollecitata è durante le prime fasi di addestramento al volo. In genere ci si iscrive ad un campo e si viene affiancati da un pilota esperto che, con la radio a doppio comando allievo-maestro, inizia a introdurci ai primi svolazzi da aquilotto. In altri casi – com'è capitato a me – il tutor fa decollare l’aereo, ti passa la radio una volta raggiunta una quota di sicurezza, ed è pronto a riprenderla in caso di difficoltà o di atterraggio.
Normale prassi dell'imparare. Però c'è da dire che – a parte qualche caso – non è come andare in montagna e seguire un corso di sci con il maestro. Il più delle volte devi metterti d'accordo con il tutor su giorno e ora in cui trovarsi, e comunque aspettare con pazienza che lui diventi disponibile. Magari lasciandogli giustamente il tempo di fare i suoi voli in santa pace.
Anche in questo caso l’attesa può non essere vana. Frenando la nostra "fregola" del volare, possiamo osservare gli altri piloti, ascoltare i loro commenti, e cercare di carpire ogni informazione che possa poi risultarci utile.

Una volta acquisita una certa dimestichezza, dobbiamo ancora aspettare. Sì. Non è una prerogativa solo dei neofiti! I casi in questa fase possono essere molteplici:

- Si deve aspettare che passi il brutto tempo, anche se si ha a disposizione un unico giorno libero per volare e proprio allora piove, nevica, c’è vento forte. Ricordo ad esempio un autunno in cui giunsi al campo tutto arzillo. Non pioveva. Non c’era troppo vento. Ma… non avevo fatto i conti con l’unica cosa che non mi aspettavo: la nebbia!

- Se si vola con un motore elettrico, occorre avere la pazienza di caricare le batterie in una modalità tale da non stressarle e dunque rovinarle (fino a due ore per batteria per pochi minuti di volo effettivo).

- Si deve aspettare che l’area di volo si liberi da altri piloti che volano. A parte il numero massimo di velivoli prescritto da ogni regolamento di campo, volare in più modelli è certamente più complesso e occorre avere una concentrazione doppia.

- Soprattutto se le nostre manovre di decollo sono ancora un po’ lente e impacciate, è bene aspettare che salga in volo il collega che in dieci secondi ha già portato il modello in quota, piuttosto che farlo tardare inutilmente.

In conclusione: imparare a gestire l’attesa con pazienza e magari riuscire a sfruttarla per migliorare, è la cosa più saggia – anche se certamente non facilissima – da fare. D’altra parte è una componente insita anche in questo hobby, così come in tante altre attività. Conoscerla diventa dunque il modo migliore per iniziare ad affrontarla.