lunedì 31 luglio 2017

Giochiamo a fare i piloti?

"Il bello è riprodurre con il modello quello che un aereo è in grado di fare realmente, non manovre impossibili nella realtà". Questa frase la pronunciò un "collega" durante un pomeriggio caldissimo d'estate mentre, soli al campo volo, si parlava di acrobazie da fare con gli aeromodelli e gli elicotteri. Entrambi concordavamo sul fatto che quello che viene chiamato 3D con gli elicotteri - vale a dire effettuare manovre acrobatiche estreme e per questo difficilissime, tali da mettere in luce le abilità di pilotaggio - in realtà può affascinare lo spettatore la prima o seconda volta che lo vede, "ma l'acrobazia aerea è un'altra cosa!". 

Frequentando un campo volo per aeromodelli ci si accorge presto che esistono grossomodo tre categorie di persone: coloro che farebbero volare persino la loro scatola di biscotti del mattino, tanto i loro aerei hanno buone capacità di volo, ma lasciano molto a desiderare sull'estetica, e per giunta hanno spesso fisionomie poco inclini a silhouette note; quelli che hanno modelli "carini", spesso riproduzioni in scala di aerei veri, ma che non indugiano troppo sui particolari; e coloro infine che hanno modelli "splendidi", realizzati (perlopiù da loro stessi) con una cura quasi maniacale del dettaglio, tanto che sembrano dei gioiellini in grado di ingannare (in scala) l'occhio meno attento. Allora quanto più il modello è "realistico", allora tanto più si avvera ciò che diceva il mio collega. A questo si aggiunga il fatto che un modello dotato di motore a scoppio invece che elettrico - meglio ancora se è a turbina - ha un suono realistico molto apprezzato dagli appassionati.

A questo punto mi domando: avere come hobby l'aeromodellismo dinamico(*) è una sorta di compensazione per il fatto di non essere riusciti a diventare piloti di aerei veri, oppure è solo qualcosa che si aggiunge ad una passione innata?

Nel mio caso probabilmente sì, è una forma di compensazione, oltre ovviamente al piacere di vedere volare, che rimanda a una più generica passione per il volo. E probabilmente ciò che vale per me, vale anche per molti altri. Invece in altri casi direi proprio di no. Lo dimostra il fatto che non è affatto infrequente avere piloti "veri" che si dedicano anche a questa attività. Dunque non è assolutamente detto che il pilotare ad esempio un ultraleggero esaurisca in tutto e per tutto la passione per il volo; anche svolazzare con un aeromodello radiocomandato aiuta in questo gradito compito.

E poi, diciamoci la verità, abbiamo a che fare con cosa: un gioco? Un hobby? Un'attività sportiva? Un hobby, sicuramente, che però include in sé una grossa componente ludica. Ricordo ad esempio con il sorriso un "collega" già maturo, svolazzare fiero del suo modello a cui aveva aggiunto un effetto mitragliatrice, il cui suono martellante si ripeteva ad ogni passaggio basso sulla pista, quasi che volesse mitragliare un'ipotetica colonna di automezzi nemici.
È per gioco che si cerca di "riprodurre ciò che un aereo vero può fare"; è ancora per gioco che si innescano fantomatici inseguimenti in aria; ed è ancora per gioco che nella cabina di pilotaggio vengono spesso inseriti dei "pilotini" finti. L'effetto realismo ha il suo peso. E non c'è gioco più bello di quello che simula quanto più possibile una realtà affascinante.


(*) Si differenzia da quello detto "statico" in quanto il modello semplicemente vola davvero

domenica 30 luglio 2017

Ma dura così poco?


Una delle domande più frequenti che un neofita, o un semplice visitatore del campo pone è: "Ma quanto vi dura una batteria?", facendo riferimento agli aerei elettrici. Alla risposta "Circa 6 minuti in media", la sua faccia assume una connotazione sbalordita, e inevitabilmente dice: "Così poco? Pensavo molto di più!".


Se poi il nostro "amico" sapesse che - se lo si fa in maniera non troppo frettolosa - ci si impiega anche un paio d'ore per caricare completamente una batteria chiamata LiPo, allora che faccia farebbe? "Ma come, due ore attaccato alla corrente per soli sei minuti di volo?". Certo... se è abituato ad esempio al cellulare che magari resta attivo per almeno 24 ore, il paragone non regge. Eppure...

Credetemi. A volte sei minuti sono pochi, ma il più delle volte sono sufficienti. La concentrazione, l'avere il corpo se non proprio teso almeno pronto immediatamente ad azioni d'emergenza, e l'attenzione costante al modello in volo sono tali che difficilmente potrebbero essere mantenuti per un lungo periodo. Soprattutto se, come nella foto, si fa del volo acrobatico detto 3D.

In quei sei minuti, poi, vivi emozioni concentrate. Una botta di vitalità, paura, soddisfazione, tensione che alla fine, quando atterri dolcemente "
pennellando la pista" (come diciamo noi), scatena nel corpo dosi massicce di serotonina che ti regalano una forte sensazione di benessere. E quando questa sensazione viene meno, allora vuol dire solo due cose: che hai volato troppo nervoso e agitato, oppure che questa pratica non riesce più a darti soddisfazione. Allora molti smettono, lasciando che i modelli prendano polvere in casa.
Non ho mai conosciuto piloti che almeno una volta non siano caduti. Anzi... quando gli chiedi "Ma tu quanti
crash hai fatto?", loro, ridendo, ti rispondono: "Sapessi!". Ciò vuol dire che chiunque ha provato sensazioni come paura, ansia, ma anche gioia, eccitazione, persino sfrontatezza nell'affrontare per la prima volta qualche manovra acrobatica. E tutto questo in sei minuti, ovviamente rinnovabili ad ogni batteria.
E non c'è volo identico all'altro. Sei minuti di vita sempre diversi, nuovi, con sfide o conquiste inedite. Anche per questo mi piace questa attività...

La paura

C'è poco da fare. La paura (quella, per essere chiari, legata ad un qualcosa che decidi di fare e che può andare bene o male) ti lancia sempre una sfida. E sta a te, allora, decidere se coglierla o meno. Se decidi per il no, puoi accampare mille scuse e scegliere di cedere, trovando la strada più facile, fosse anche decidere di tornare a volare con il tuo vecchio modello-scuola: placido, certamente più rassicurante, anche se porta indelebili le ferite dei tuoi primi voli modello fratelli Wright, ovvero fatti di cadute, ingenuità, inesperienza. E in questo "limbo" (non certo esaltante, perché comunque sai di avere paura e sei consapevole di aver intrapreso la scelta più comoda) puoi starci per mesi interi. Finanche per sempre. Però la sfida dettata dalla paura è sempre lì. Ti aspetta. Ormai "il guanto è lanciato". Perché la paura non ha fretta. Sa aspettare, e quando meno te lo aspetti ti gela le mani, ti fa battere il cuore e prefigura nella tua testa immagini drammatiche.
Se invece decidi di affrontarla - di raccogliere la sfida - allora il tempo corre. Non vuoi aspettare ancora. Se "subito" non è possibile, allora che passino al massimo un paio di giorni. Non di più. Perché la paura ti ha sfidato e desidera essere più forte di te. 

Mi è capitato in questi giorni. Dopo aver vinto una prima - certo più pesante - sfida, ripresi con coraggio in mano il mio Darko (nella foto). Al primo volo potevo sentire il cuore battere in tutto il corpo, però non cedetti. Continuai. Tutto bene. Così come al secondo, al terzo e così via. Sono passate settimane e la fiducia in me - e nel mezzo - si è diciamo "assestata". È perfino cresciuta. Poi domenica. Campo deserto. Uhmmm che fare. Ok. Sono convinto, volerò da solo. Per fortuna, poi, arriva un amico. Meglio così. Anche se comunque sei da solo in mezzo alla pista, un sostegno psicologico aiuta. Parto, deciso, quando d'un tratto Darko vira a mezzo metro d'altezza, fa un giro completo, e "smusa" per terra come un albatros ferito. I danni fisici sono lievi. Non mi perdo d'animo. Lo riporto alla partenza e via, uno, due, tre voli ok. Sono contento. Non ho ceduto, anche se qualche manutenzione straordinaria s'ha da fare. Ed allora, a casa, nastro adesivo, colla e pennarello per ridare un tocco di bellezza alle cicatrici nella struttura.
Eppure la testa si è inchiodata a quell'albatros che ha "smusato". Perché? Errore mio? Forse. O forse un vigliacco avvallamento del terreno che ha affossato una ruota e provocato un potenziale disastro? E se fosse invece un problema tecnico, lo stesso che mesi fa fece schiantare il modello e con esso la mia fiducia in lui?
C'è poco da fare. Occorre riprovare. Anche perché la paura, fottutamente mi ha colto a freddo. Dopo diverse ore. Non ha fretta, l'ho detto. E mi suggerisce maligna: "Torna al tuo vecchio aereo, è meglio!".

Fanculo. No.

Martedì so che qualcuno al campo c'è. Ok. Fisso il duello con la paura proprio due giorni dopo il misfatto. Non era mai successo che rispondessi così repentinamente. Carico le batterie, mangio veloce e mi cambio. Cioè indosso vestiti "da sbarco", adatti ad un campo umido in mezzo al nulla. E qui rientra in gioco la scaramanzia. Lo so, è una stupidaggine... però... da quando anni fa andai al primo esame d'università con un maglione rosso, e andò bene, decisi che per tutta la formazione nell'ateneo ad ogni esame avrei indossato almeno una punta di rosso. Fosse pure una riga sulle calze. E così feci. Fino alla laurea. Così sto per mettere gli stessi vestiti di domenica quando... no aspetta. Va bene tutto però... cambiamoci. Ecco allora la maglietta più cara che ho (affettivamente parlando; ha 14 anni!), pile, scarpe da sbarco e via.

Arrivo al campo. Vedo già da lontano alcuni amici parcheggiati. Ok. Oggi si vola. Non ci sono scuse.
Sul tavolo preparo il modello come un chirurgo preparerebbe un'operazione a cuore aperto. Le batterie pullulano di energia. Il modello risponde ai comandi di controllo. Placido. Socievole. È un buon segno. Ora tocca a me. Potrei cincischiare a lato del campo, stemperare la tensione in due chiacchiere... ma no. Sono qui per un duello con la paura, e prima lo affronto meglio è.
Con cipiglio guadagno il centro della pista. Ancora una volta mi sento solo con me stesso (cfr. mia nota "Come un rigore nel cielo"). Ci siamo io, Darko, il cielo, una pista dove i lombrichi si sono divertiti ad accumulare montagnette tumide di terra e la sfida. Vada come vada. Parto. Darko risponde bene. Sobbalza sopra i cunicoli dei lombrichi e poi s'alza, gagliardo. Ok. Il più è fatto. Viro, guadagno aria e fiducia. Vola bene. Il rumore dell'elica è un fruscio familiare che mi rassicura. Sta andando tutto bene.

La giornata è di quelle "regalate" per un inverno: freddo ma sole, tanto sole che si riflette sul giallo delle ali. Mi godo lo spettacolo. "Darko... sei bellissimo" mi dico nella testa, mentre disegno nel cielo geometrie variabili.

Possano i minuti è ora di scendere. Ulteriore banco di prova. Arrivo, veloce. Toccco terra. Poi mi fermo, con un inchino del modello bloccato all'ultimo dall'erba compatta e spessa come muschio. Ma è tutto ok. Zero danni.
Poi un secondo ed un terzo volo. Fanculo la paura. Oggi ho vinto io.

Stacco la batteria, spengo la radio e finalmente mi godo la soddisfazione. Festeggio. Ho portato dei cioccolatini che offro agli amici del campo, anche se non immaginano che ci sia qualcosa da festeggiare. Il dolce dello zucchero si mescola alle endorfine che stanno invadendo il mio ego. Oggi ho vinto io. E Darko, in volo, era davvero bello...
   

Come un rigore nel cielo

Il decollo è un po' come un rigore dopo i tempi supplementari di una partita di calcio. A lato della pista ci possono essere anche 20 persone, ma quando percorri quelle poche decine di passi per raggiungerne il centro, di fatto sei da solo. Anche se magari c'è qualcun altro che lì a fianco sta pilotando. Sei da solo. Aereo da una parte e radio dall'altra. E allora scegli il punto esatto. L'erba dev'essere il più possibile bassa, il terreno livellato. Aggiusti il muso dell'aereo perché segua la traiettoria ottimale. Poi inizi a "sgranchirgli" tutti gli arti. Sono i controlli "pre-volo", quelli che molte volte ti salvano il modello (e il salvadanaio). Così "la bestiola" (come spesso la chiamo io) agita alettoni, timone di coda, accenna ad un ruggito del motore. Tutto ok.

Un occhio lo butti alla manica a vento. Tutto a posto. Accenna solamente a qualche scodinzolio, segno che il vento è debole a sufficienza e posto nella direzione giusta.
Allora dai gas. La bestiola corre, alza fili d'erba secchi, solleva qualche sbuffo di polvere di terra. Corre, gaio, bruciando l'erba sotto i ruotini. E tu dentro di te dici: "Vai... alzati!". Pochi secondi dopo la bestiola si alza. Dapprima come un albatros, poi come un gabbiano. E c'è la prima virata. Larga. Calma. Soddisfatta.

Lui è il volo. Il cielo ora, per sei minuti sarà tuo e del tuo modello. Segui traiettorie mentali: ora viro, ora faccio un looping, ora un tonneau. Come una ballerina la bestiola disegna figure nel cielo. Alle volte, invece, cammina placido come un uomo sereno con se stesso. Oggi non c'è fretta. Oggi non ho voglia di fare il supereroe.
Il timer scandisce il tempo. Meno 4,30 minuti. Meno 2. Meno 90 secondi al tempo di sicurezza per lo scarico della batteria. È ora di pensare a scendere.
Fai l'ultima virata. La pista è sotto di lui, davanti a te, come un corridoio munito d’una passatoia d’erba verde. Deceleri. Il tuo gabbiano diventa ora un falco che plana dolcemente, fino a toccare terra. Pochi metri di rincorsa sull'erba e la bestiola è finalmente ferma. Sicura. Intatta. Serena.

La raccogli. Stacchi dolcemente la batteria, e spegni la radio. Ora puoi sederti a guardare il resto del mondo che vola.
Oggi è andata ancora una volta bene. Stasera, festeggerò con una birretta a cena!

Volevo fare il pilota della Pattuglia Acrobatica

Sì, fin da piccolo. 


Credo che il colpo di fulmine sia scoccato un'estate forse del 1978, quando (allora tredicenne) la Pattuglia Acrobatica Nazionale (PAN) "decise" di fare le prove della loro esibizione proprio sopra la casa di mia nonna, in provincia di Massa Carrara. Vedere dieci Fiat G91 PAN sfrecciare nel cielo e fare evoluzioni al cardiopalma fu per me entusiasmante. 
E decisivo. 
L'indomani la PAN avrebbe dato spettacolo di sé all'aeroporto di Cinquale (MS). Il mio destino sembrava segnato. Pilota. Sì. Pilota della PAN.
Inutile dire che ogni aereo che passava in cielo, per me era occasione per voltarmi. Neanche fosse una bella ragazza! Forse è invece più curioso dire che fin da allora dimostravo un buon senso di responsabilità: "Se farò il pilota - mi dicevo - è meglio che non mi sposi. Non si sa mai. È meglio evitare di lasciare vedove...".

Il sogno diede dei frutti parziali: vale a dire poster, libri e e gadget di aeronautica, ma nessuna scuola specifica. Forse perché da sempre mi fa impressione la velocità. E dunque salire su un jet non è proprio la cosa più adatta. Il colpo di grazie venne però un giorno a Torino, mentre frequentavo il primo anno di università. Assieme ad un'amica andammo su una miserevole giostra tipo montagne russe. Tale che avrebbe fatto ridere gli appassionati del brivido ludico. Ma tant'è. Scesi, dopo un paio di minuti di centrifuga, con nella gola non solo il cuore, ma anche il pancreas e le budella. La strada era segnata. Troppa paura. No... fare il pilota non è proprio la mia strada.

L'interesse, l'amore per gli aerei però non si è mai sopito. Fino al giorno in cui mio figlio arrivò a casa con un elicotterino regalatogli dai nonni. Una "bestiola" (come amo chiamarli io) di una quarantina di centimetri, coassiale, cioè con due rotori per una migliore stabilità. Un giocattolo, insomma.

Alla domanda "Ma con il nonno lo fate volare?" e la risposta un po' vaga ("Sì, ogni tanto ma è un anno che è fermo!") la soluzione venne immediata. "Portalo a casa che lo facciamo volare noi!".
Così fu. Scelto un capetto deserto, il modellino riprese vita. Uno, due, tre voli, fino a che la passione eruppe in me e mi comprai anch'io un elicottero coassiale di simile grandezza. Un Lima Fly arancione, 3 canali. Una figata!
Scoprii però presto che sono modelli da far volare SOLO senza il minimo vento, meglio se al chiuso. Al secondo volo, infatti, lo dovetti recuperare in cima ad una siepe di rovi, distante 150 metri da me.
Ma tant'è, il
virus dell'aeromodellismo mi aveva colpito e affondato. Credo che fosse il 2010 o 2011. Da allora non ho più smesso, e oltre all'aereo, l'elicottero ha lasciato un marchio forte e indelebile in me.