domenica 30 luglio 2017

La paura

C'è poco da fare. La paura (quella, per essere chiari, legata ad un qualcosa che decidi di fare e che può andare bene o male) ti lancia sempre una sfida. E sta a te, allora, decidere se coglierla o meno. Se decidi per il no, puoi accampare mille scuse e scegliere di cedere, trovando la strada più facile, fosse anche decidere di tornare a volare con il tuo vecchio modello-scuola: placido, certamente più rassicurante, anche se porta indelebili le ferite dei tuoi primi voli modello fratelli Wright, ovvero fatti di cadute, ingenuità, inesperienza. E in questo "limbo" (non certo esaltante, perché comunque sai di avere paura e sei consapevole di aver intrapreso la scelta più comoda) puoi starci per mesi interi. Finanche per sempre. Però la sfida dettata dalla paura è sempre lì. Ti aspetta. Ormai "il guanto è lanciato". Perché la paura non ha fretta. Sa aspettare, e quando meno te lo aspetti ti gela le mani, ti fa battere il cuore e prefigura nella tua testa immagini drammatiche.
Se invece decidi di affrontarla - di raccogliere la sfida - allora il tempo corre. Non vuoi aspettare ancora. Se "subito" non è possibile, allora che passino al massimo un paio di giorni. Non di più. Perché la paura ti ha sfidato e desidera essere più forte di te. 

Mi è capitato in questi giorni. Dopo aver vinto una prima - certo più pesante - sfida, ripresi con coraggio in mano il mio Darko (nella foto). Al primo volo potevo sentire il cuore battere in tutto il corpo, però non cedetti. Continuai. Tutto bene. Così come al secondo, al terzo e così via. Sono passate settimane e la fiducia in me - e nel mezzo - si è diciamo "assestata". È perfino cresciuta. Poi domenica. Campo deserto. Uhmmm che fare. Ok. Sono convinto, volerò da solo. Per fortuna, poi, arriva un amico. Meglio così. Anche se comunque sei da solo in mezzo alla pista, un sostegno psicologico aiuta. Parto, deciso, quando d'un tratto Darko vira a mezzo metro d'altezza, fa un giro completo, e "smusa" per terra come un albatros ferito. I danni fisici sono lievi. Non mi perdo d'animo. Lo riporto alla partenza e via, uno, due, tre voli ok. Sono contento. Non ho ceduto, anche se qualche manutenzione straordinaria s'ha da fare. Ed allora, a casa, nastro adesivo, colla e pennarello per ridare un tocco di bellezza alle cicatrici nella struttura.
Eppure la testa si è inchiodata a quell'albatros che ha "smusato". Perché? Errore mio? Forse. O forse un vigliacco avvallamento del terreno che ha affossato una ruota e provocato un potenziale disastro? E se fosse invece un problema tecnico, lo stesso che mesi fa fece schiantare il modello e con esso la mia fiducia in lui?
C'è poco da fare. Occorre riprovare. Anche perché la paura, fottutamente mi ha colto a freddo. Dopo diverse ore. Non ha fretta, l'ho detto. E mi suggerisce maligna: "Torna al tuo vecchio aereo, è meglio!".

Fanculo. No.

Martedì so che qualcuno al campo c'è. Ok. Fisso il duello con la paura proprio due giorni dopo il misfatto. Non era mai successo che rispondessi così repentinamente. Carico le batterie, mangio veloce e mi cambio. Cioè indosso vestiti "da sbarco", adatti ad un campo umido in mezzo al nulla. E qui rientra in gioco la scaramanzia. Lo so, è una stupidaggine... però... da quando anni fa andai al primo esame d'università con un maglione rosso, e andò bene, decisi che per tutta la formazione nell'ateneo ad ogni esame avrei indossato almeno una punta di rosso. Fosse pure una riga sulle calze. E così feci. Fino alla laurea. Così sto per mettere gli stessi vestiti di domenica quando... no aspetta. Va bene tutto però... cambiamoci. Ecco allora la maglietta più cara che ho (affettivamente parlando; ha 14 anni!), pile, scarpe da sbarco e via.

Arrivo al campo. Vedo già da lontano alcuni amici parcheggiati. Ok. Oggi si vola. Non ci sono scuse.
Sul tavolo preparo il modello come un chirurgo preparerebbe un'operazione a cuore aperto. Le batterie pullulano di energia. Il modello risponde ai comandi di controllo. Placido. Socievole. È un buon segno. Ora tocca a me. Potrei cincischiare a lato del campo, stemperare la tensione in due chiacchiere... ma no. Sono qui per un duello con la paura, e prima lo affronto meglio è.
Con cipiglio guadagno il centro della pista. Ancora una volta mi sento solo con me stesso (cfr. mia nota "Come un rigore nel cielo"). Ci siamo io, Darko, il cielo, una pista dove i lombrichi si sono divertiti ad accumulare montagnette tumide di terra e la sfida. Vada come vada. Parto. Darko risponde bene. Sobbalza sopra i cunicoli dei lombrichi e poi s'alza, gagliardo. Ok. Il più è fatto. Viro, guadagno aria e fiducia. Vola bene. Il rumore dell'elica è un fruscio familiare che mi rassicura. Sta andando tutto bene.

La giornata è di quelle "regalate" per un inverno: freddo ma sole, tanto sole che si riflette sul giallo delle ali. Mi godo lo spettacolo. "Darko... sei bellissimo" mi dico nella testa, mentre disegno nel cielo geometrie variabili.

Possano i minuti è ora di scendere. Ulteriore banco di prova. Arrivo, veloce. Toccco terra. Poi mi fermo, con un inchino del modello bloccato all'ultimo dall'erba compatta e spessa come muschio. Ma è tutto ok. Zero danni.
Poi un secondo ed un terzo volo. Fanculo la paura. Oggi ho vinto io.

Stacco la batteria, spengo la radio e finalmente mi godo la soddisfazione. Festeggio. Ho portato dei cioccolatini che offro agli amici del campo, anche se non immaginano che ci sia qualcosa da festeggiare. Il dolce dello zucchero si mescola alle endorfine che stanno invadendo il mio ego. Oggi ho vinto io. E Darko, in volo, era davvero bello...
   

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