Ho sempre pensato che la pista di un campo di aeromodellismo fosse una
sorta di contenitore di emozioni; di quelle che nascono, vivono e... no... non
muoiono, perché piuttosto si cristallizzano tra i fili d’erba e la terra,
sparpagliate dagli uccelli a volo radente e
schivate dagli animaletti del
terreno. Se potessimo avere tecnologie dell’anima all’avanguardia (tipo i RIS
dei carabinieri) potremmo in condizioni particolari vedere tracce di orgoglio,
paura, ansia, gioia ecc. Nuove, oppure magari vecchie e sedimentate da anni. Noi
non le vediamo, ma restano lì, per sempre, diventando humus di humus, erba di
erba, fango di fango. Sì, la pista è un contenitore ma anche uno specchio che
ci rimanda indietro soprattutto le nostre paure, sfidando sempre l‘orgoglio.
Come una livella di Totò, la pista è
capace di smussare l’ardire dei piloti troppo sicuri, richiamandoli a terra,
nel modo peggiore: il crash. Per contro, però, è capace anche di esaltare il
cuore impavido di tanti aquilotti che come Icaro desiderano sfidare i propri
limiti mentali ed osare.
Ne ho avuto l’ennesima dimostrazione ieri. Dopo due mesi dall’ultima -
rovinosa - scarrellata con un modello adottato da un amico (e conseguente ennesima
riparazione) ho deciso che era il momento di riprovare. Di uscire dalla comfort zone di modelli già noti, per
affrontare il rischio di un eventuale altro crash, questa volta probabilmente
definitivo. Con tre batterie turgide di energia, sono andato al campo in uno di
quei pomeriggi in cui praticamente nessuno aveva risposto all’appello sulla
presenza. Grazie al cielo c’erano due amici e colleghi, senza modello, che più
che altro hanno fatto da “balie”. Senza indugi, sistemo il tutto e decollo. L’aereo
sembra un cavallo impazzito. Il cabra è decisamente fuori scala, così trimmo di
brutto cercando un equilibrio precario. Per fortuna la bestiola si calma e
decide di volare più o meno in linea. E arriva il momento dell’atterraggio,
temutissimo. Viro, mi allineo alla pista, ma come una balena spiaggiata la
bestia fa sentire tutto il suo peso su un carrello “che si piega con un
grissino” (tanto per parafrasare una vecchia pubblicità di un tonno in
scatola). Buffo, il modello sembra un buoledogue francese steso a terra a mo’
di rana. Ma nessun danno grave. Così lo ripiglio, lo rimetto in sesto, e mosso
da un furore dell’anima senza precedenti acchiappo un’altra batteria e parto.
Atterraggio simile, anche se migliore.
Dalla piccionaia la mia balia mi dà suggerimenti e conforto: «Devi solo prenderci la mano». Così studio la dinamica del mio primo volo, evidenzio le difficoltà, gli errori e riparto. Terza batteria. Non è passata neanche un’ora. I problemi però restano. Il carrello sembra fatto di stagno, tanto è malleabile. “Mannaggia ai cinesi che risparmiano sui materiali... e alle mie mani che sembrano rubate all’agricoltura” mi dico. Poi il colpo di genio: un bel filo di ferro a contenere le gambe del carrello decisamente deboli. Fantastico!
Dalla piccionaia la mia balia mi dà suggerimenti e conforto: «Devi solo prenderci la mano». Così studio la dinamica del mio primo volo, evidenzio le difficoltà, gli errori e riparto. Terza batteria. Non è passata neanche un’ora. I problemi però restano. Il carrello sembra fatto di stagno, tanto è malleabile. “Mannaggia ai cinesi che risparmiano sui materiali... e alle mie mani che sembrano rubate all’agricoltura” mi dico. Poi il colpo di genio: un bel filo di ferro a contenere le gambe del carrello decisamente deboli. Fantastico!
Operiamo come se fossimo in un ospedale da campo di Emergency mentre
il tempo assume le colorazioni dell’autunno. Alla fine (magari poco estetico ma
funzionale) il modello è pronto. Sembra una bella ragazza con i ferretti ai denti,
ma va bene lo stesso. Il problema è che non ho più batterie. La mia fame di
riscatto ne ha “mangiate” tre in un’ora. Però... aspetta... c’è l’ultima. Pensavo
fosse in storage (e quindi a circa il 30% di carica) ed invece... Guardo:
60%. Si può fare. Un decollo, un giro e atterraggio immediato, giusto
per verificare le nostre competenze “ortopediche”. Vado, giro, viro e...
atterro. Il sistema regge. Poco importa che abbia terminato la corsa a bordo
pista, baciando una pianta di granoturco. Ero troppo attento a seguire il
rotolamento delle ruote, che non ho avuto testa di agire sul direzionale.
Così torno a casa. Sul terreno lascio sudore, ansia, coraggio e
determinazione, che gli uccelli rasperanno via cercando lombrichi. Ma il
modello è intero, seppure “con i ferri ai denti”. Finalmente mi rilasso. Fra un
po’ tornerò, sempre con lui, ma per le
prossime volte qualche volo in comfort
zone ci sta tutto.
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