venerdì 28 ottobre 2022

Cos'è che fa gruppo...

Ricordo che da piccolo (ma neanche poi tanto...) ero solito fondare club di cui il più delle volte ero l’unico partecipante. Non era una sorta di istrionismo esagerato, nemmeno una forma di attitudine al comando. Più semplicemente era la voglia di fare branco, di trovare anime complementari con le quali condividere esperienze, interessi, sogni e fantasia. Col passare degli anni, poi, ho finalmente dato vita a gruppi che non soltanto erano numerosi (finalmente!) ma che di cose ne hanno anche fatte. In particolare ricordo con grande tenerezza e nostalgia un gruppo di poesia che è durato per 15 anni, fino a quando nel 1999 ho lasciato il Piemonte per venire in Lombardia.

Nel campo volo ho cercato e trovato le stesse motivazioni di allora: branco, calore, amicizia, voglia di divertirsi nel pieno rispetto degli altri. E come allora era solo la “parola” ad unirci (il gruppo poetico), oggi è una striscia d’erba ed un cielo non infinito. Non ci sono interessi economici, tantomeno di “potere”, e men che meno sfide maschie per conquistarsi favori femminili.

La sociologia abbonda di testi sulle dinamiche di gruppo, e non è certo il caso di scomodarla. Può però essere utile ricordare che il gruppo può vivere fasi alterne ed evolutive esattamente come un rapporto affettivo. Si passa dalla conoscenza, all’
innamoramento, per poi sfociare in un rapporto maturo dove occorre accettare, mediare, avere pazienza, ecc.
Ma cos’è che fa gruppo? A parte l’interesse comune (che tuttavia può anche essere vissuto in maniera più autonoma e poco socializzante), credo che il segreto stia innanzitutto nel farsi membro del branco, ovvero accogliere alla pari qualsiasi altro membro del gruppo, senza sentirsi né superiore né inferiore. Questo, ovviamente, rispettando le gerarchie stabilite dallo statuto e democraticamente elette.
Nel caso dell’aeromodellismo, io posso essere il pilota più figo del mondo, posso contare su un palmares sbalorditivo di successi e far volare ai limiti della gravità modelli da sogno, ma se poi, a terra - tra il caldo e l’umido, le mosche e il sudore, e il nulla che in genere attornia un campo - “resto umile” e ho voglia di socializzare, di ridere, di scherzare, allora io stesso posso aggiungere fondamentali gocce di colla per tenere insieme un gruppo che comunque è in continuo divenire.
Come una casa, poi, un gruppo ha bisogno di “muri portanti”, ovvero di persone capaci di fare (come dice la sociologia) da leader emotivi, che non necessariamente coincidono con i leader (es. il direttivo) riconosciuti ed eletti. Tali leader emotivi sono coloro che sanno attrarre a sé le simpatie di molti, e che riversano questa energia positiva sul gruppo stesso, facendo da “paciere” ma soprattutto sdrammatizzando gli eventi avversi e ricordando a tutti l’obiettivo (soprattutto emotivo) che il gruppo ha.

Dio benedica queste persone, perché sono proprio loro a reggere il tubetto di colla che fa tenere assieme il gruppo. E quando queste svaniscono, sovente cala sul gruppo una cortina di stanchezza e noia che il più delle volte fa allontanare le persone e svanire ogni progetto.
Ma attenzione. I muri portanti sono fondamentali, ma non meno anche dei mattoni, delle travi e di tutto ciò che fa casa. Diversamente ci sarebbe solo un rudere incompleto. Per questo amo sempre fare riferimento alla vita sociale del lupo. Il branco è famiglia; è luogo dove sentirsi protetti, giocare, nutrirsi, vivere. Ma il branco funziona solo se io stesso faccio branco, se dunque lo vivo come tale riconoscendone l’importanza e quel misto di regole non scritte e sensibilità che fanno la differenza.

Dunque in certi ambienti viviamo più da lupi che uomini... Ne avremo di che guadagnarci!

venerdì 14 ottobre 2022

Le sfide invisibili

Ho sempre pensato che la pista di un campo di aeromodellismo fosse una sorta di contenitore di emozioni; di quelle che nascono, vivono e... no... non muoiono, perché piuttosto si cristallizzano tra i fili d’erba e la terra, sparpagliate dagli uccelli a volo radente e 
schivate dagli animaletti del terreno. Se potessimo avere tecnologie dell’anima all’avanguardia (tipo i RIS dei carabinieri) potremmo in condizioni particolari vedere tracce di orgoglio, paura, ansia, gioia ecc. Nuove, oppure magari vecchie e sedimentate da anni. Noi non le vediamo, ma restano lì, per sempre, diventando humus di humus, erba di erba, fango di fango. Sì, la pista è un contenitore ma anche uno specchio che ci rimanda indietro soprattutto le nostre paure, sfidando sempre l‘orgoglio. Come una livella di Totò, la pista è capace di smussare l’ardire dei piloti troppo sicuri, richiamandoli a terra, nel modo peggiore: il crash. Per contro, però, è capace anche di esaltare il cuore impavido di tanti aquilotti che come Icaro desiderano sfidare i propri limiti mentali ed osare.

Ne ho avuto l’ennesima dimostrazione ieri. Dopo due mesi dall’ultima - rovinosa - scarrellata con un modello adottato da un amico (e conseguente ennesima riparazione) ho deciso che era il momento di riprovare. Di uscire dalla comfort zone di modelli già noti, per affrontare il rischio di un eventuale altro crash, questa volta probabilmente definitivo. Con tre batterie turgide di energia, sono andato al campo in uno di quei pomeriggi in cui praticamente nessuno aveva risposto all’appello sulla presenza. Grazie al cielo c’erano due amici e colleghi, senza modello, che più che altro hanno fatto da “balie”. Senza indugi, sistemo il tutto e decollo. L’aereo sembra un cavallo impazzito. Il cabra è decisamente fuori scala, così trimmo di brutto cercando un equilibrio precario. Per fortuna la bestiola si calma e decide di volare più o meno in linea. E arriva il momento dell’atterraggio, temutissimo. Viro, mi allineo alla pista, ma come una balena spiaggiata la bestia fa sentire tutto il suo peso su un carrello “che si piega con un grissino” (tanto per parafrasare una vecchia pubblicità di un tonno in scatola). Buffo, il modello sembra un buoledogue francese steso a terra a mo’ di rana. Ma nessun danno grave. Così lo ripiglio, lo rimetto in sesto, e mosso da un furore dell’anima senza precedenti acchiappo un’altra batteria e parto. Atterraggio simile, anche se migliore.
Dalla piccionaia la mia balia mi dà suggerimenti e conforto: «Devi solo prenderci la mano». Così studio la dinamica del mio primo volo, evidenzio le difficoltà, gli errori e riparto. Terza batteria. Non è passata neanche un’ora. I problemi però restano. Il carrello sembra fatto di stagno, tanto è malleabile. “Mannaggia ai cinesi che risparmiano sui materiali... e alle mie mani che sembrano rubate all’agricoltura” mi dico. Poi il colpo di genio: un bel filo di ferro a contenere le gambe del carrello decisamente deboli. Fantastico!

Operiamo come se fossimo in un ospedale da campo di Emergency mentre il tempo assume le colorazioni dell’autunno. Alla fine (magari poco estetico ma funzionale) il modello è pronto. Sembra una bella ragazza con i ferretti ai denti, ma va bene lo stesso. Il problema è che non ho più batterie. La mia fame di riscatto ne ha “mangiate” tre in un’ora. Però... aspetta... c’è l’ultima. Pensavo fosse in
storage (e quindi a circa il 30% di caricaed invece... Guardo: 60%. Si può fare. Un decollo, un giro e atterraggio immediato, giusto per verificare le nostre competenze “ortopediche”. Vado, giro, viro e... atterro. Il sistema regge. Poco importa che abbia terminato la corsa a bordo pista, baciando una pianta di granoturco. Ero troppo attento a seguire il rotolamento delle ruote, che non ho avuto testa di agire sul direzionale.

Così torno a casa. Sul terreno lascio sudore, ansia, coraggio e determinazione, che gli uccelli rasperanno via cercando lombrichi. Ma il modello è intero, seppure “con i ferri ai denti”. Finalmente mi rilasso. Fra un po’ tornerò,  sempre con lui, ma per le prossime volte qualche volo in comfort zone ci sta tutto.