Il pensiero l’ho fatto dopo una nottata pervasa di amarezza: l’immagine
di quel modello con il muso mozzato e mezza elica conficcata nella “guancia” mi
restava in mente, mentre guardavo la zona della camera dove fino poche ore
prima giaceva bello e pronto al volo. Non era un modello nuovo. Anzi.
Recuperato da un amico purtroppo scomparso di recente, l’avevo adocchiato già
da tempo perché era molto simile al mio Darko e, dunque, pensavo che fosse paragonabile
come dinamica di volo.
Così dopo qualche esitazione l’ho adottato, bindato alla mia radio e
ho concordato un appuntamento con un amico esperto del campo per un primo
collaudo. Ovvero un collaudo col suo nuovo proprietario: io. Quel giorno feci
tre voli. Perfetti. Ero a dir poco felice.
La settimana successiva, gasato come una Coca-Cola, lo riportai al
campo. Primo volo... così così. Complice il vento piegai un poco il carrello.
Però un collega improvvisatosi fabbro, lo aggiustò in un amen a suon di
martellate. Secondo volo... ok. Terzo volo... fanculo... scarrello e il modello
smusa come uno stallone azzoppato. Mi incavolo dandomi dello sciocco
principiante: “Motore, cazzo, motore devi dare!”. Poi però mi dico con
inusitata calma: “Ok... c’è santa madre colla”. E così faccio. A casa rinsaldo
tutto e mi sento pronto per il rilancio, anche se quel piccolo crash comunque
un’ombra l’ha lasciata.
E arriviamo al giorno fatidico. C’è vento, ma quel giorno non so
perché mi sento un San Michele contro il demonio Eolo. Parto, volo, atterro
e... clamorosa smusata con azzoppamento del carrello. Raggiungo il modello che
quasi mi viene da piangere per la rabbia. Stesso punto di rottura. Fanculo il
vento e la colla. Con rabbia guadagno il tavolo, faccio una pesante flebo di
colla bicomponente ed un antiestetico ma efficace bendaggio con nastro telato.
Tutto questo mentre la manica a vento viene sculacciata dalle raffiche. Non so
perché ma mi sono imposto di tornare a volare subito.
Passa più di un’ora e il vento regala qualche nodo in meno di forza e
la colla fa presa. Allora come un eroe mitologico guadagno la pista e parto. Rabbioso.
Convinto. Decollo... ok. Viro. Dopo poche decine di metri un rumore sordo (sentito
da tutti i presenti) mi segnala che c’è qualcosa che non va. “Scendi subito” mi
dicono dalla piccionaia (chiamo così lo spazio di sosta dei piloti). D’un
tratto, vedo pendere di lato la batteria tenuta solo dai cavi di alimentazione,
il vano motore è squarciato e devo fare un atterraggio non “di fortuna”, ma di
vero e proprio “culo”. Guadagno il suolo in qualche modo e l’intero motore
schizza via come una testa troncata. Guardo il modello e mi sembra un pesce
decapitato venduto al supermercato dei surgelati. “Non ho parole”, dico. Un
esame immediato dà il responso: il parafiamma del motore si era spezzato di
lato già in volo. Forse era già compromesso e le vibrazioni gli hanno dato il colpo di grazia. La botta al suolo ha comunque fatto saltare anche il resto.
Sono mogio come un gatto triste. Poi un amico mi dice. “Dallo a me,
vedo di rimettertelo a posto io”. Lo ringrazio, glielo consegno ma in cuor mio
lo do già per morto.
Tornato a casa mi arrovello: era un aereo vecchio, molto usato, “di
recupero”, però mi piaceva. E soprattutto: cosa cavolo era successo? A parte lo
scarrellamento - chiaramente colpa mia - mi levo subito qualche
peso di coscienza: non si è rotto per colpa mia. “Infarto del metallo del
parafiamma”, mi ripeto. Ma qui non siamo in una puntata del Dr. House dove alla
fine tutto si risolve. Così passo la notte mogio, amareggiato, ma con il 50%
dei sensi di colpa in meno. Al mattino, poi, la folgorazione: «Stefano, ma non
è che quel modello non aveva più voglia di volare? Non è che fosse
semplicemente stanco e in qualche modo ha fatto un’eutanasia da solo?».
Datemi del matto, ma l’ho pensato. E il fatto di dire: “Basta. Aveva
solo voglia di fermarsi. Gli hai regalato 6 voli inaspettati, ora basta...” mi
ha rincuorato. Mi ha messo il cuore in pace.
D’altra parte, se ho sempre sostenuto che i modelli hanno un’anima,
non posso non pensare che ogni tanto abbiano voglia anche di morire. E allora
ho pensato a tutte quelle volte in cui i nostri modelli cadono e si sfracellano
per cause a noi ignote. Noi pensiamo che sia sfiga, interferenza radio, o
chissà cosa. Ma semplicemente, forse, il modello è solo stanco e ha voglia di
riposare per sempre. Sia esso giovane o vecchio, poco importa. Per motivi suoi
vuole “staccare la spina” e l’unico modo che ha per farlo è un crash disastroso. Diversamente colla e
artigianalità possono metterlo di nuovo in pista. E allora il desiderio del
modello viene meno.
Stavo dunque coccolandomi con la mia rassegnazione, quando mi chiama l’amico.
“L’ho sistemato. Secondo me vola ancora”. “Oh numi!” penso. Da una parte sono
felice che mi abbia dato un’altra possibilità. Dall’altra il pensiero è subito
andato a quanto ho scritto: e se questo fosse solo una forma di accanimento terapeutico? Ve lo dirò nei prossimi voli.
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