venerdì 27 ottobre 2023

Impariamo dal branco

Il termine branco, preso a prestito dall’etologia, soprattutto negli ultimi anni ha assunto una connotazione negativa in contesti al di fuori di essa. Lo si usa infatti quasi sempre nei mass media per indicare un gruppo di delinquenti che ad esempio stupra una donna o commette crimini efferati. Eppure, preso nel suo significato originario, è invece profondamente significativo ed evocativo. Nonché bello. Nel mondo dei lupi, ad esempio, indica una unità familiare allargata, ovvero un gruppo di canidi selvatici formato dalla coppia genitoriale (padre e madre, detta coppia alfa), i loro cuccioli più altri adulti nati da accoppiamenti precedenti.
Preso come concetto, poi, il termine branco può adattarsi perfettamente ad un gruppo sociale quale può essere un’associazione, un club, un circolo. 

Perché?

In primo luogo perché i componenti del gruppo sociale riconoscono di farne parte: sono infatti soci, a cui spettano dei diritti in cambio di un obolo economico generalmente modesto; in quanto tali, poi, hanno diritto di accesso a spazi riservati (paragonabili al territorio ad esempio dei lupi), a servizi dedicati ecc.; ma anche sono “uniformati” da segnali visivi e materiali: la tessera associativa, la spilletta, l’adesivo, la maglietta, il cappellino. Insomma, tutto ciò che può mostrare all’esterno che si fa parte di un gruppo ristretto, che si autoriconosce e che difende proprio queste peculiarità.

Ecco allora che proprio al gruppo sociale si presta bene il concetto di branco, nel senso più positivo (ed esclusivo) del termine. Ma c’è molto di più. Anzi, ci può essere molto di più. Chi conosce l’etologia del lupo, sa bene ad esempio quanto il branco sia stupendamente funzionale: ognuno ha un compito preciso, ma all’occorrenza tutti i membri collaborano per uno scopo; all’interno del branco, poi, non c’è solo rispetto, ma anche affetto; i membri che per qualche motivo si allontanano da esso, infine, spesso trovano il modo di restare in contatto con gli altri, ad esempio usando il celeberrimo ululato. Quest’ultimo, al di là di tutte le connotazioni romantiche che gli sono state date, serve infatti principalmente a due scopi: restare in contatto col gruppo e segnalare la propria presenza a gruppi invece estranei e che quindi è bene che non invadano il territorio altrui.

In un club, circolo, associazione, applicare il concetto di branco può essere allora auspicabile e meraviglioso.

L’uso della tecnologia moderna, poi, può facilitare la cosa. Tramite WhatsApp, ad esempio, ogni membro può in un attimo far sentire la propria presenza anche se è dall’altro capo del mondo magari per lavoro o diletto. Tramite Facebook o altre piattaforme simili, il gruppo può essere costantemente informato, creando poi un luogo virtuale  dove scambiarsi opinioni, informazioni ecc. E guarda caso anche questo spazio virtuale segue le logiche del territorio: ci si entra solo col permesso dei suoi custodi (amministratori della pagina) e talvolta se ne viene espulsi se si adotta un comportamento inadatto al gruppo stesso.

Branco: una unità familiare
allargata
Ritengo dunque che l’obiettivo di coloro che guidano un gruppo sociale (presidenti, consiglieri ecc.) sia quello non solo di gestire materialmente il gruppo stesso, ma di applicare i principi del branco. Infatti è fisiologico che ogni gruppo sociale conosca crisi profonde e momenti invece di successo. Nelle prime si verifica magari un allontanamento volontario dei soci, tale da mettere a rischio l’esistenza del gruppo stesso; nei momenti di successo, invece il numero dei partecipanti aumenta, c’è armonia e tutto sembra andare per il meglio. Se si applica, si coltiva, si promuove il concetto di branco, anche le crisi peggiori possono essere affrontate con più possibilità di successo. Perché ogni membro non si sentirà solo socio ma anche componente di una unità familiare allargata, e come tale il legame emotivo molte volte farà da collante là dove ragioni pratiche o esclusivamente personali lo hanno invece allontanato.

A chi pensasse che tutto questo discorso possa essere riassunto nel semplice concetto di amicizia, rispondo che non è così. Certo, tra i membri del branco può nascere amicizia, ma questa presuppone anche frequentazioni che fuoriescono dal territorio dove opera il gruppo. In buona sostanza, con un amico vado anche a bere una birra, al cinema, vado a casa sua o in vacanza. L’amicizia insomma fuoriesce dall’ambito di operatività del gruppo, e coinvolge altri importanti aspetti della vita: un amico allora non mi limito a frequentarlo ad esempio solo in un campo volo o in un circolo di scacchi. Senza con questo nulla togliere al rapporto amichevole che si può instaurare tra soci, è importante tuttavia sottolineare un concetto: l’amicizia tende a proteggere e conservare il rapporto tra chi è legato da questo sentimento; nel branco, invece, questo senso di protezione viene (o dovrebbe essere) esteso all’intero gruppo.

Il branco è insomma diverso. Ciò che lo lega è un rapporto di appartenenza, di reciproco riconoscimento, di esclusività da proteggere e coltivare. E se questo succede, difficilmente il legame tra chi ne fa parte potrà essere interrotto del tutto. Ci si potrà allontanare per mille ragioni, si potrà litigare, ma alla fine quel sottile filo che lega il gruppo può anche prevalere:  salvando così  il gruppo stesso, inteso come branco e meravigliosa unità di eletti.

lunedì 2 ottobre 2023

I miei primi 10 anni... di aeromodellismo

Era il giugno del 2013 quando per la prima volta raggiunsi un campo volo; da pilota, non da semplice spettatore. ll mio modello U Can Fly della Hype riluccicava al sole come il mio sorriso. Intonso, perfetto, l’unico pezzo rimasto in tutta la Lombardia e Piemonte (sarebbe andato fuori produzione di lì a poco), tanto che mi feci 150 chilometri per andarlo a prendere di persona a Montalto Dora (TO). Poi lanciai un appello in Rete, e il responsabile gentilissimo di un campo dalle parti di Monza rispose. O, meglio, raccolse quel pulcino impaurito per fargli fare i primissimi voli da aquilotto. E per dare finalmente vita al mio modello che subito chiamai Cuča (si pronuncia cucia, ma suona anche come "cuccia") che in croato significa casa. L’auspicio era chiaro: era una scaramanzia affinché il modello tornasse sempre a casa. Magari intatto.

La foto con l’aereo rosso risale proprio a quel battesimo dell’aria. Rigido come una pertica, con il cuore a mille, feci volare la mia “bestiola” senza danni. Roba da stappare una bottiglia a sera e cucinare i miei piatti preferiti.

Da allora non sono solo passati dieci anni, ma se vogliamo un’intera era. Molte cose sono cambiate, ma non quella sottile ansia che ad ogni volo (ormai saranno qualche centinaio) resta in tutto il corpo, salvo poi stemperarsi una volta che i ruotini fermano la loro corsa sull’erba. Ormai l’ho accettata l’ho accolta come parte di me. Era l’unico modo per non esserne soggiogato.

Lasciato quasi subito quel campo ospite a cui va ancora oggi tutto il mio riconoscimento (era troppo distante per me), trovai quasi subito l’attuale campo di Ceriano Laghetto, di cui ora sono orgoglioso presidente. Non tanto per meriti aviatori (ora so pilotare, sì, ma non sono certo un Francesco Baracca della situazione), quanto per quel vero e proprio amore per il campo, i suoi soci e l’ambiente che ho trovato fin dal primo giorno.

Sì... ne è passato di tempo. Ho volato, sono caduto, ho aggiustato, sono caduto in crisi, mi sono risollevato, ho gioito, ho riso, ho pianto. Ho fatto tutto. All’aperto, con temperature dai + 4° ai + 35°, e anche dentro di me.

Nel 2015, quindi solo due anni dopo, arrivò Darko (nella seconda foto, risalente a pochi mesi fa): un aeromodello nato per l’acrobazia, ma riconvertito nella guida ad un più tranquillo modello da volo volato come si dice; in sostanza tranquillo. Con Darko all’inizio non è stato facile, tanto che per forse tre mesi (dopo l’ennesima caduta) lo parcheggiai in garage, per tornare al più placido e rassicurante Cuča. Poi l‘orgoglio ha avuto la meglio sulla paura. Così l’ho ripreso, e nonostante qualche incidente, ora sono quasi 8 anni che è il mio fidato compagno di volo. Le sue ammaccature vanno di pari passo con le mie rughe; le sue crepe sono le mie. La colla... no... quella è solo sua!

Se da ragazzo mi avessero detto che alla veneranda età di 48 anni avrei intrapreso un percorso aeromodellistico, non ci avrei creduto. Eppure... sono ancora qui, e se Dio vuole, mi piacerebbe festeggiare anche il primo ventennio, trentennio e così via.

Dieci anni, vissuti intensamente; passati a scrutare il meteo, a studiare le possibilità di pomeriggi liberi, a prepararsi mentalmente e in concreto per andare al campo, così come ormai dico con estrema familiarità. Dieci anni che hanno dato vita a 2 libri (Voglia di Volo e Fame d’aria, rispettivamente: Amazon 2018, e Amazon 2021), di cui il primo tradotto e venduto all’estero anche in inglese (Let me fly, Amazon 2020).

Dieci anni di passione, condivisione, amicizia, solidarietà, con luci e ombre, ma pur sempre vissuti con adrenalina e serotonina in corpo.

Non dimenticherò mai chi, in dieci anni, a vario titolo mi è venuto incontro, mi ha aiutato da tecnico e da amico, da maestro o da collega. Così come non dimenticherò mai (né intendo farlo) quella meravigliosa sensazione di disegnare nel cielo col tuo modello, dimenticando tutto per i 5 minuti della batteria. Cinque minuti capaci spesso di riempirti il cuore. E in alcuni giorni anche l’anima.